Forse sapete che l’Italia è il paese che negli ultimi anni ha più cercato di sensibilizzare il resto del mondo per la salvaguardia dei beni culturali nelle zone di guerra. Forse lo sapete perché, in occasione del recente dibattito sulla necessità di creare una forza speciale di caschi blu dell’ONU che potesse essere schierata a protezione dei beni culturali in un paese che subisce un conflitto, è stata proprio l’Italia a spingere di più per una risoluzione delle Nazioni Unite. Nel farlo il governo italiano ha rivendicato il valore e l’esperienza che le nostre forze armate hanno su questo campo. Quello che però quasi nessun italiano sapeva, fino alla pubblicazione di un bel libro di cui vi racconteremo in questa intervista, è il fatto che molta di questa “sensibilità” delle forze armate italiane in difesa dei beni culturali messi in pericolo nelle zone di guerra, si deve anche (o meglio dire soprattutto?) al lavoro pionieristico svolto da un archeologo napoletano: Fabio Maniscalco.
Laura Sudiro, con Giovanni Rispoli, è la coautrice di Oro dentro. Un archeologo in trincea: Bosnia, Albania, Kosovo, Medio Oriente, Skira editore, 2016, un libro che sta avendo il giusto successo di critica nel trattare la biografia, con stile originalissimo, del ricercatore e archeologo napoletano che venti anni fa parte come ufficiale volontario nell’esercito italiano allora impegnato in una difficile missione di pace nella Bosnia lacerata dalla guerra civile. Lì Maniscalco si impegna a far applicare, almeno dalle forze italiane, l’articolo della Convenzione Internazionale dell’Aja del 1954 fino ad allora ignorato da tutti: l’articolo 7 che prevede che ogni esercito abbia un nucleo specializzato nella tutela del patrimonio culturale. Poi continuerà a farlo anche nelle altre sue successive missioni, fino al tragico epilogo della sua vita.
Qualche mese fa, l’ambasciata italiana e l’Istituto italiano di cultura di Washington hanno organizzato un concerto con la banda dell’Arma dei carabinieri. L’Arma dei carabinieri vanta un nucleo specializzato nel recupero dei beni culturali trafugati, il Nucleo Tpc. Il concerto di Washington faceva parte di una serie di eventi chiamati “Protecting our Heritage” ed è stato dedicato a coloro che hanno rischiato la vita per preservare il patrimonio culturale dell’umanità per le generazioni future. Insieme agli ufficiali americani che durante la seconda guerra mondiale hanno contribuito a salvare il nostro patrimonio (i “Monuments Men” dell’omonimo film di George Clooney), in quella sede sono stati ricordati il custode-martire di Palmira Khaled al-Asaad e appunto Fabio Maniscalco.
Ma prima dell’uscita del libro di Sudiro e Rispoli, la figura eroica del ricercatore e archeologo era stata dimenticata. Ora sembra che finalmente le istituzioni si accorgono del lavoro importantissimo svolto da Maniscalco e del suo sacrificio. Infatti l’archeologo napoletano di cui Sudiro e Rispoli raccontano la vita usando lo stile letterario del “romanzo”, è morto nel 2008 per la sua esposizione all ‘uranio impoverito, lasciando uno sconfinato lavoro pubblicistico sulla materia e tragicamente anche l’affetto dei suoi familiari. Oro dentro fin dal titolo quindi descrive la generosa ed eroica vita di un italiano grande tra i giusti. Fino, purtroppo, alla sua tragica fine.
Proprio durante gli attuali lavori della 71esima Assemblea Generale dell’ONU, l’Italia organizza una conferenza speciale sulla strategie di salvaguardia e protezione dei beni culturali e artistici nelle zone di guerra, una conferenza di cui La Voce vi riferirà. Una conferenza al Palazzo di Vetro che, ne siamo certi, se il Professor Maniscalco fosse stato ancora in vita, lo avrebbe sicuramente visto tra i protagonisti.
Dopo aver letto il libro sulla vita di Fabio Maniscalco, eccovi l’intervista con la co-autrice di Oro dentro, Laura Sudiro, giornalista e scrittrice esperta di archeologia.
Quando e perché avete deciso di scrivere sulla vita di Fabio Maniscalco?
“Ho sempre pensato che siano le storie a chiamare noi, non viceversa. E che nulla avvenga per caso. Esiste un filo sottile che lega gli eventi, che fa incrociare le vite. La mia esperienza di Fabio Maniscalco è stata questa. Non ho avuto la fortuna di conoscerlo perché quando venni a sapere di lui e della sua esistenza straordinaria era morto da quasi un anno. Avevo incontrato il suo nome nei testi che stavo consultando per la redazione della mia tesi di laurea in archeologia subacquea, materia in cui Fabio era specializzato. E colpita dalla mole delle sue pubblicazioni – non solo quelle relative alla tutela del patrimonio archeologico sommerso, ma anche quelle attinenti alla legislazione dei beni culturali in aree di crisi e alla convenzione dell’Aja del 1954 sulla protezione dei beni culturali in caso di conflitto armato – chiesi al mio relatore, Francesco Paolo Arata, chi fosse questo autore così eclettico e prolifico.
Fu proprio il prof. Arata a raccontarmi per sommi capi la vicenda di Fabio: le sue missioni nei paesi martoriati dalle guerre degli anni Novanta-inizi Duemila, il suo impegno nella salvaguardia dei beni culturali di quei luoghi, la sua battaglia contro il tumore – un adenocarcinoma al pancreas, provocato dall’esposizione all’inquinamento bellico nei Balcani – che lo avrebbe stroncato il primo febbraio 2008. A soli quarantadue anni.
Ne rimasi profondamente impressionata. E decisi di informarmi meglio. Trovai molti articoli sul web, quasi tutti incentrati sull’ultima fase della sua vita, la malattia, la candidatura al premio Nobel per la pace del 2008. Ma niente di più. Napoli, la sua Napoli, sembrava averlo dimenticato. Nessun commento da parte dell’Esercito in cui aveva militato alla fine degli anni Novanta. Nessun contributo ragionato sul valore della sua eredità, scientifica e umana. Una figura così, destinata all’oblio: mi sembrò assurdo. In quel momento capii che mi trovavo di fronte a una storia che doveva essere raccontata. Per colmare una lacuna. Per un’esigenza di giustizia. Il resto venne da sé: il primo incontro (folgorante) a Napoli con la moglie, Mariarosaria Ruggiero, e con i figli, Ludovico e Micol, all’epoca piccoli (cinque e tre anni), l’idea di un libro, una biografia romanzata, confidata a Giovanni Rispoli, collega e amico, la decisione di scriverlo insieme.
Nonostante la difficoltà nelle ricerche e la lunga gestazione non ho mai dubitato della bontà della mia intuizione. E a un anno dalla pubblicazione di Oro dentro, continuo a ripetermi: ne è valsa la pena”.
La salvaguardia del bello, della cultura, dell’arte, del patrimonio archeologico, è per voi, come lo era per Fabio, la strada obbligata per il raggiungimento della pace in qualsiasi area di crisi?
“Il nostro libro si chiude ponendo in forma di domanda retorica una frase – “La bellezza salverà il mondo” – che Dostoevskij, nell’Idiota, affida al protagonista del romanzo, il principe Myškin. Che la bellezza possa avere un simile potere è cosa di cui siamo fermamente convinti, così come lo era Fabio. Ma crediamo anche, con Salvatore Settis, che la bellezza salverà il mondo solo se il mondo saprà salvaguardare la bellezza. Un mondo che si nutre di bellezza è, di per sé, un mondo che ripudia ogni tipo di conflitto. Fabio l’aveva capito benissimo. Vent’anni orsono. Aveva capito quanto la damnatio memoriae, la distruzione del patrimonio culturale di un popolo, fosse un’arma non solo sottovalutata ma, soprattutto, di una violenza inaudita: perché capace di innescare un processo di sradicamento collettivo. Proprio per questo Fabio attribuiva un valore enorme all’educazione, alla formazione, alla cooperazione. Insegnare a conoscere e a rispettare le altrui espressioni artistiche, anche quelle del “nemico”, era per lui un mezzo straordinariamente efficace per proteggere il patrimonio culturale universale. E contribuire a realizzare, anche per questa via, un mondo di pace”.
All’Onu è stato da poco approvato il progetto di costituzione dei caschi blu della cultura. Un obiettivo portato avanti dall’Italia, con il ministro Franceschini che ha spinto molto per questo risultato. Quanto si deve al lavoro di Maniscalco negli anni Novanta con l’esercito italiano in Bosnia, Albania e Kosovo il raggiungimento di questa forza specializzata dell’Onu? E quanto è stato riconosciuto all’archeologo napoletano prematuramente scomparso di questi meriti dal governo italiano e dalla comunità internazionale?
“Potrei rispondere a queste domande con due parole: tanto e nulla. Fabio Maniscalco, già nel gennaio del 1996, quando arrivò a Sarajevo come ufficiale in ferma breve, inserito nella cellula di Pubblica informazione – in altre parole nell’ufficio stampa – della Brigata Garibaldi, ebbe modo di maturare questa idea. Quella che aveva di fronte e in cui si trovava a operare era una città ridotta in macerie, piegata da quattro anni di assedio, i suoi simboli – in primis la storica Biblioteca nazionale, la Vijećnica – violati e colpiti al cuore. Così, in un clima ancora in ebollizione, con i cecchini che continuavano a sparare, decise che avrebbe provato a convincere i suoi superiori della necessità di un monitoraggio accurato del patrimonio culturale, mobile e immobile, della capitale bosniaca nel tentativo di salvare il salvabile. Lo fece richiamando alla loro attenzione l’articolo 7 della Convenzione dell’Aja del 1954, articolo che prescrive, al comma 2, la necessità di “predisporre o istituire, sin dal tempo di pace, nell’ambito delle proprie forze armate, servizi o personale specializzati, aventi il compito di assicurare il rispetto dei beni culturali e di collaborare con le autorità civili incaricate della loro salvaguardia”. Nessun esercito al mondo, nel secondo dopoguerra, aveva mai applicato quell’articolo. L’Esercito italiano sarebbe stato dunque il primo. Argomentazione che dovette sembrare irresistibile. E che fu decisiva. Fabio iniziò così le sue ricognizioni. Da solo e in via sperimentale a Sarajevo, poi nel giugno del ’97, a capo di un team ufficialmente costituito allo scopo, in Albania, paese all’epoca attraversato da una grave crisi politica ed economica che rischiava di sfociare in una guerra civile. La sua avventura nell’Esercito, come il libro racconta, non fu duratura. Fabio, stranamente, non superò il concorso per entrare in servizio permanente effettivo. E non riuscì a coronare il suo sogno: diventare un carabiniere dell’arte, cioè uno dei carabinieri del Nucleo di tutela del patrimonio culturale (Ntpc). Gli stessi che, affiancati da funzionari del Mibact (Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo), sono andati a costituire i caschi blu della cultura, la task force di recente istituzione, fortemente voluta, come ricordavi, dal ministro Franceschini. Alla luce di questi ultimi eventi possiamo però dire che aveva visto bene. Non solo. Aveva visto lungo.
Passando alla seconda parte della domanda, va specificato che la comunità scientifica nazionale e internazionale ha dimostrato di riconoscere il valore dell’opera di Fabio sostenendo con centinaia di firme la sua candidatura al Nobel per la pace. Da parte del Governo italiano, invece, e delle istituzioni in genere, come dicevo nulla. Fabio Maniscalco rimane un illustre sconosciuto, almeno da questo punto di vista. Ma non c’è da stupirsi. L’Italia è un paese distratto e dalle forti contraddizioni”.
I caschi blu nel mondo spesso non riescono a proteggere i civili – vedi a Srebrenica o in Ruanda o gli ultimi casi in Sud Sudan –, come potrebbero dunque aver successo con i beni culturali?
“È una giusta osservazione. Provo a rispondere come credo avrebbe risposto Fabio. L’unico modo davvero efficace per proteggere il patrimonio storico e artistico mondiale è puntare sulla prevenzione. È in tempo di pace o, comunque, fuori dalle emergenze, che va perfezionata e aggiornata la legislazione che lo tutela nel corso dei conflitti, delle crisi o in occasione di calamità naturali. È allora che vanno avviati monitoraggi e ricognizioni dei beni storici, artistici e archeologici, realizzando una puntuale catalogazione grafica e fotografica. Quando infuriano i bombardamenti o subito dopo una catastrofe naturale – terremoti, inondazioni, alluvioni – qualunque intervento, anche se tempestivo, perde di efficacia. È evidente. Se i caschi blu della cultura sapranno mettere a punto nei paesi in cui sono chiamati a operare una tutela preventiva del patrimonio culturale, avranno già reso all’umanità un grande servizio. In più, credo che non si dovrebbe sottovalutare l’importanza e l’utilità di attività di formazione, prevedendo, ad esempio, corsi specifici sulle misure di protezione preventiva e sulle tecniche di primo intervento da destinare alle forze di polizia e ai militari locali. Nonché iniziative ad hoc per informare e sensibilizzare la popolazione sul significato e il valore della propria memoria e sulla necessità di proteggerla per sé e per le future generazioni”.
Il vostro libro è una via di mezzo tra il romanzo e una cronaca di una vita narrata attraverso le interviste con familiari, amici e colleghi di Maniscalco. Chi lo ha conosciuto bene, che reazione ha avuto al vostro libro? E voi siete soddisfatti o qualcosa vi è mancato per completarlo?
“In molti ci hanno detto che leggendo il libro hanno rivisto il Fabio che conoscevano. L’hanno sentito muoversi fra le pagine. E hanno visto i luoghi in cui era stato e di cui raccontava di ritorno dalle missioni. Come se fossero seduti davanti a un film, il film della sua vita. Diciamo che questo basta e avanza per essere soddisfatti”.
Certo, un film vero e proprio. Sarebbe proprio una bella storia per il grande schermo quella di Fabio Maniscalco, da far sentire fieri anche gli italiani all’estero.
“In realtà la sceneggiatura è già pronta. Siamo in cerca di un produttore”.
Fabio Maniscalco è morto nel 2008, all’età di 43 anni, per un tumore causato dal suo lavoro nelle aree di guerra della ex Jugoslavia. Questo libro serve ancora per far riconoscere i diritti di chi ha sofferto e ancora soffre le conseguenze di alcune scelte sconsiderate? Nel libro si parla di soldati italiani completamente non protetti con tute e guanti dagli effetti causati dai bombardamenti con proiettili composti con uranio impoverito mentre gli altri soldati della NATO erano informati e quindi protetti… Il vostro libro che effetti sta avendo verso questa denuncia?
“Diciamo che ha contribuito, con un’altra storia, una storia forte come quella di Fabio, a scardinare il muro di gomma eretto anche intorno alla vicenda del Du (Depleted uranium). Proprio nei giorni in cui il libro veniva dato alle stampe, la Corte d’Appello di Roma emanava una sentenza storica che ha stabilito “in termini di inequivoca certezza” – a proposito di un militare deceduto dopo le missioni nella ex Jugoslavia – il nesso di causalità tra le patologie tumorali e l’esposizione alle polveri da uranio impoverito nei Balcani, condannando di fatto il ministero della Difesa a un risarcimento esemplare.
A quella sentenza ne sono seguite poi altre dello stesso tenore. La partita rimane aperta, ma si è trattato di un primo, incoraggiante, risultato per le famiglie delle vittime, per chi si è ammalato, per tutti coloro che si sono spesi in quella che considero una battaglia di civiltà. Penso innanzitutto, a questo riguardo, all’attività dell’Osservatorio Militare diretto da Mimmo Leggiero e all’operato del comitato antimilitarista sardo “Gettiamo le Basi” che da tempo denuncia le attività dei poligoni Nato di Capo Frasca, Capo Teulada e Salto di Quirra e le morti sospette di militari e civili residenti nei dintorni.
Insomma, con il nostro libro è stato aggiunto un tassello al mosaico, un’altra piccola goccia che va a scardinare anni di silenzi, omissioni, mistificazioni”.
L’esercito che non conferma Fabio Maniscalco nonostante il suo prezioso lavoro, poi l’Università Orientale di Napoli che sembra isolarlo … Pensate che qualcuno dovrebbe chiedere scusa per aver ostacolato la missione di Maniscalco? O tutto rientra nella normalità delle difficoltà che in Italia più di una generazione ha avuto per affermarsi nel lavoro che ama?
“Delle due l’una. O si deve accettare che Fabio Maniscalco sia stato semplicemente un ragazzo molto sfortunato, vittima anche lui dei mala tempora che falcidiano i sogni delle ultime generazioni, oppure è lecito supporre che in entrambi i mondi, l’Esercito e l’Accademia, esistano meccanismi congegnati appositamente per emarginare non dico i migliori, come spesso accade, ma sicuramente gli scomodi. E Fabio, scomodo, senza dubbio lo era. Un elemento forse destabilizzante per il formalismo militare, un’indole poco incline a subire imposizioni piovute dall’alto. Era abituato a fare di testa sua. La logica del compromesso non gli apparteneva, così come gli era estranea una certa compiacenza, ricercata e apprezzata in alcuni ambienti. Sono portata a credere che questo lato del suo carattere, in un sistema fatto di suscettibilità e invidie, non gli abbia fatto molto bene. A ogni modo credo che se non fosse morto, prima o poi sarebbe riuscito a ottenere quella cattedra che da anni inseguiva all’Orientale di Napoli. Tardi, ma ci sarebbe arrivato. Aveva passione, coraggio, intelligenza, una valanga di pubblicazioni, attestati di merito conquistati sul campo. E una determinazione oserei dire disarmante. Gli è mancato il tempo”.
C’è un testo di Maniscalco che potrebbe servire da guida al lavoro dei caschi blu che dovrebbero proteggere i beni culturali in aree di crisi?
“Certo. Uno dei suoi ultimi lavori. L’ultimo numero, il sesto, della collana Mediterraneum, da lui ideata e curata, pubblicata da Massa Editore. Il volume, in doppia versione, italiana e inglese, s’intitola World heritage and war e traccia, con chiarezza ed esaustività, le linee guida per gli interventi a salvaguardia del patrimonio culturale, mobile e immobile, nelle aree a rischio bellico. Si tratta di un manuale, di agile lettura, che affianca a un robusto apparato informativo e normativo suggerimenti pratici di immediato utilizzo. Un altro dei testi alla Fabio Maniscalco. Innovativo e, anche per questo aspetto, unico nel suo genere”.
Se fosse sopravvissuto cosa avrebbe ancora potuto fare?
“Fabio è stato un pioniere in questo tipo di studi. L’archeologia per lui non era una semplice professione. Era un modo per mettersi al servizio. Era passione civile ed era amore. Amore per l’umanità. La sua totale abnegazione si può spiegare solo così. Se fosse sopravvissuto avrebbe continuato a lottare in prima linea. Contro l’ignoranza, contro la burocrazia e i meccanismi farraginosi della politica e delle organizzazioni internazionali. Avrebbe continuato a scrivere, a denunciare, a informare. Si sarebbe servito di tutte le nuove possibilità offerte dal web, dei social network, per fare arrivare il suo messaggio ovunque. Soprattutto, avrebbe continuato a viaggiare, a recarsi sul posto, per vedere con i propri occhi le ferite inferte al patrimonio culturale dei popoli. Teoria e pratica, studio e sperimentazione erano per lui binomi inscindibili. È questo che l’ha reso speciale. E la sua storia, una storia degna di essere raccontata”.