Ora sappiamo chi è dio: è Giacomo Sartori. Bella forza direte, lo dichiara in questo libro fin dal titolo, anzi lo strilla, Sono dio, ci vuol tanto a capirlo? La scelta di far parlare dio in prima persona, dando voce alle sue divagazioni su temi che spaziano dalla bellezza del cosmo alla bruttezza dell’arte contemporanea, passando per la razza umana, impietosamente paragonata a tutte le altre specie viventi, produce un effetto inevitabile: quello di immaginare che nei monologhi interiori di dio l’autore ci abbia messo molto di sé. Ma potrebbe anche essere altrimenti. Certo è che il dio che ne esce è piuttosto simpatico, con una punta di cinismo che non guasta.
Di Sartori, scrittore e agronomo, originario del Trentino, da molti anni a Parigi, ci eravamo già occupati in passato, recensendo il suo Rogo, romanzo centrato sul tragico destino di tre donne di epoche diverse. Il registro, in questo nuovo lavoro edito dalla milanese NN (casa editrice che ha tradotto, fra gli altri, anche lo statunitense Kent Haruf) cambia.
Protagonista stavolta è un dio bonario, a volte dispettoso anche se non veramente irato, un dio che non accetta tutto e non sembra neanche tanto incline all’amore universale. Ma all’amore particolare? A quello sì. La molla della narrazione infatti è proprio l’amore, o quantomeno l’infatuazione per una comune mortale, una giovane motociclista post-punk, alta, magra dalla vita in su, un tantino sovradimensionata dalla vita in giù. La ragazza di mestiere fa la ricercatrice e, inoltre, vista la sua specializzazione in genetica, feconda le mucche. Come? Beh, infila una siringa con il seme del toro nella loro vagina e la guida esattamente fino alla cervice dell’utero, aiutandosi con la mano libera, che ha preventivamente introdotto nell’ano delle bestie. Un’immagine piuttosto forte, direte. Sì, ma non per dio. Che non si agita nemmeno di fronte ad un’altra stravagante usanza della giovane: quella di bruciare nel caminetto di casa, invece della solita legna, i crocifissi che ha staccato dalle pareti delle chiese e degli edifici pubblici. Robetta per un’atea professionista come lei e a ragion veduta, come scoprirà il lettore quasi in fondo al romanzo.
La narrazione è costruita sull’alternanza fra capitoli a tema, in cui l’io – anzi, il dio – narrante disquisisce su tutta una serie di questioni, a volte lamentandosi per i limiti imposti dal linguaggio terrestre, quello con cui ha scelto di esprimersi, altre brontolando sulle scelte degli umani, e capitoli centrarti invece sulla vicenda vera e propria del suo innamoramento. Come ogni buon dio che si rispetti, anche quello di Sartori tutto vede e tutto considera. Incredibilmente, però, si fissa su una ragazza così: intelligente ma non geniale, gradevole ma non perfetta (molto meno delle ninfe, e anche delle mortali, predate dal vecchio Zeus), disinibita sul piano sessuale ma di sicuro lontana dal modello della femme fatale. Una ragazza che a suo modo dà la vita e quindi crea, un po’ come lui, ma lo fa in maniera meccanica, usando la tecnologia. E sì che avrebbe a disposizione le donne più straordinarie, del presente, del passato e del futuro, perché il concetto di tempo per dio è piuttosto elastico. Forse è questo il messaggio? L’onnipotente, uno che può avere tutto, alla fine se deve cadere cade sull’ordinario? Sul culo grosso, sui cannoli siciliani e l’anorgasmia di una giovane studiosa che sta per essere licenziata e non lo sa, che veste come una coatta e coltiva in gran segreto l’ambizione di scoprire una classe particolare di batteri in grado di produrre energia? Parrebbe di sì. Del resto, quando medita sull’opportunità di incarnarsi, dio pensa che farebbe cose normali: “Mi schiaccerei in mezzi di trasporto alle ore di punta, entrerei in centri commerciali strapieni, guarderei le serie televisive, stravaccato su un divano”.
Quel che è certo è che il dio di Sartori è uno che si fa coinvolgere, pur senza perdere del tutto la bussola. Un dio che si sorprende delle sue stesse reazioni, gelosia compresa. Che viene a patti con quel tanto di umano che c’è in lui. A partire dall’amore. Non quello perfetto, assoluto, incondizionato, che il dio del Nuovo Testamento (ma non del Vecchio) prova per l’umanità indifferenziata. Piuttosto l’amore parziale, imperfetto, a volte ridicolo (Amori ridicoli, vi dice nulla questo titolo?) proprio per quella creatura lì, con un nome e un cognome, un corpo, una storia, un destino. Il dio di Sartori infine cede alla tentazione delle tentazioni, quella di comportarsi come noi. Spia l’amata. Mette i bastoni fra le ruote ai suoi corteggiatori. L’aiuta.
Ma non muore per salvare gli uomini, anzi a questo estremo sacrificio non sembra proprio essere incline. Alla fine della fiera, per lui, non siamo tanto più importanti dei leoni marini, o delle stelle lontane. Siamo un esperimento mal riuscito, una specie strana, impossibilitata ad essere felice, troppo esposta alle malattie e troppo schiava dei suoi impulsi sessuali. Gli uomini, a ben guardare, hanno un’unica certezza: quella di dover morire. “In un certo senso – conclude dio – non voglio nemmeno più sentirli nominare”.
Ora aspettiamo la prossima provocazione. Ci permettiamo di suggerirla: un dio, finalmente, madre, anziché padre. Un dio al femminile. Ergo, una dea.