Dovessi provare a spiegare che cosa ci lascia Leonardo Sciascia come eredità, insegnamento, oltre ai suoi libri (difficile sceglierne uno in particolare: tutti hanno una loro specifica e singolare importanza; insieme formano un’“enciclopedia” della ragione; tutti sono di conforto e “disvelamento” di una realtà che si può vedere, e che lui vede), direi forse che tutto è racchiuso in una frase che comincia con una negazione, ma che è, più propriamente, un’affermazione. La frase è questa:
“Credo sia il tempo (era la fine degli anni ’70, ma è sempre quel tempo; ndr.) di usare il verbo rompere, in tutta la sua violenza morale e metaforica. Rompere i compromessi e le compromissioni, i giochi delle parti, le mafie, gli intrallazzi, i silenzi, le omertà; rompere questa specie di patto tra le stupidità e la violenza che si viene manifestando nelle cose italiane; rompere l’equivalenza tra il potere, la scienza e la morte che sembra stia per stabilirsi nel mondo; rompere le uova nel paniere, se si vuole dirla con linguaggio ed immagine più quotidiana, prima che ci preparino la letale frittata; e così via… Come dice il titolo di un libro di Jean Daniel, questa è l’era della rottura – o soltanto l’ora. Non bisogna lasciarla scivolare sulla nostra indifferenza sulla nostra ignavia.”
No all’indifferenza e all’ignavia, ecco la “chiave” per comprendere Sciascia: che indifferente e ignavo non fu mai. E per quel che riguarda il suo supposto pessimismo: si tratta piuttosto di realismo, il saper vedere, ascoltare, capire. Ma vedere, sentire, comprendere è esattamente il contrario del disimpegno, del laissez-faire. Le opere, ma anche il quotidiano “fare” di Sciascia lo testimoniano.
Un tassello importante per comprendere e mettere a fuoco questo impegno, fatto di pazienti e metodiche letture, di riflessioni sempre originali, di individuazione precisa della natura dei problemi e descrizione dei fenomeni che li determinano, viene da Fine del carabiniere a cavallo (Adelphi, pagg.246, 23 euro). Si tratta di testi sparsi tra riviste e giornali, meritoriamente raccolti da Paolo Squillacioti, uno studioso che cura con rigore e passione le opere complete del grande scrittore. Sono una trentina di saggi che spaziano tra il 1955 e il 1989, divisi in tre sezioni: “Resoconti singolarmente militanti”; “Divagazioni sulla storia e la cultura europea”; “Ritratti complici di contemporanei”. Sciascia “legge” Italo Calvino e Lawrence Durrell; Giovanni Arpino e James Joyce; gli amatissimi Stendhal e Alberto Savinio, Giuseppe Antonio Borgese, Vitaliano Brancati, “riscopre” Enrico Morovich, Vincenzo Consolo, Gesualdo Bufalino… Dite che sono scritti d’occasione, senza un filo logico che li leghi, di interesse solo per irriducibili amatori che studiano virgole e punti, ma nulla aggiungono a quel che già si sa di Sciascia?
Se lo dite (o lo pensate) siete in errore. Grave errore. Perché certo, chi vuole entrare in confidenza con Sciascia non può limitarsi alla lettura di questi saggi; ma leggerli è come seguire lo scrittore nel suo indagare in quel terreno che è insieme “impegno civile” e letteratura. La pagina dedicata a Eugenio Montale, per esempio; o la nota su Leo Longanesi… Ma senza fretta, si cominci pure dal primo saggio, quello che dà il titolo alla raccolta: “Fine del carabiniere a cavallo”, del 1955; e poi, con arbitrario salto si passi a “Montecitorio”, prima voce del “Dizionario”, del 1979. Siamo sempre lì, nei dintorni del Thompson flaubertiano, cui Sciascia spesso si richiama.
Si può chiudere con un’avvertenza: il lettore non cada nella tentazione di credere che in questa raccolta di saggi le letture, gli autori trattati, siano frutto di “confusione”, di un “disordine” che quand’anche fosse sarebbe comunque interessante da seguire e decifrare. Tutt’altro. Nel suo “errare” letterario, Sciascia segue una precisa rotta, indicata da una sua interiore bussola; e vi troviamo oltre un percorso di “lettore” attento, partecipe, curioso, anche tutte le cifre delle sue passioni civili e morali. Gli autori che “frequenta” e con i quali “colloquia” sono in certa misura suoi complici, sodali. Il libro, l’autore segnalato non sono mai casuali, richiami, evocazioni possono, a prima lettura, sorprendere; ma attenzione: quasi naturalmente si svela e dipana la trama, che non cessa mai di inseguire. Ecco così che ogni citazione, ogni riferimento ha una sua ragion d’essere: è una tessera di un mosaico infinito, un qualcosa sedimentato e ben assimilato, anche quando il riferimento sembra fuggevole, scivolato quasi per distrazione. “Sono un dilettante, non un militante”, dice Sciascia di sé stesso. Da prendere alla lettera, secondo la lezione stendhaliana: di chi rifiuta la noia, e per contravveleno appunto si “diletta”, divaga; e con “leggerezza” profonda ci svaga.