el 2016 ricorre il centenario della nascita di Natalia Ginzburg e l’Istituto Italiano di Cultura di New York giovedì 31 marzo, ha commemorato la ricorrenza con un evento alquanto inaspettato. L’evento ha messo insieme Nanni Moretti, il poeta Valerio Magrelli e l’italianista Stefania Lucamante.
Il regista Nanni Moretti ha letto da alcune opere di Natalia Ginzburg: il romanzo epistolare Caro Michele (1973) che ha come sfondo il terrorismo degli anni Settanta e un testo da La mia psicanalisi. Entrambi sono testi per certi versi idiosincratici e che trattano della morte di persone care ma anche dell’ostinata ricerca di se stessi al di fuori delle regole. Regole stabilite dalla scienza, compresa la psicanalisi o dalla storia. Infatti emerge forte da questi scritti, che l’unica legge e regole seguite dalla scrittrice sono quelle che appartengono alla dimensione intima e profonda della scrittura. Appunto il suo “mestiere di scrivere,” il titolo di uno dei suoi testi contenuto nella raccolta Le piccole virtú (1962).
Ascoltare Nanni Moretti leggere i testi di Natalia Ginzburg è stato bello, soprattutto i passi in cui sono descritte emozioni forti che vengono mitigate con il filtro dell’ironia e anche il compiacersi dei propri limiti, errori e mancanza di un sentimentalismo anche di fronte alle più grosse tragedie della vita, quel detestare di farsi veder piangere dagli altri e tenersi il dolore quasi custodito nella propria intimità. L’intimità dei propri pensieri che si materializzano con la scrittura. Non avevo mai pensato infatti che lo stile di alcuni personaggi di Nanni Moretti (soprattutto ho pensato al suo ultimo, stupendo, Mia madre), potesse in qualche modo incontrarsi e trovarsi con lo stile di Natalia Ginzburg. Il cinema di Nanni Moretti è anche un cinema molto parlato. E mentre il regista leggeva le riflessioni sulla memoria, sui gesti mancati, le parole dette o quelle lasciate non dette, contenute nelle lettere di Caro Michele, non potevo non pensare ad alcuni momenti di introspezione e tentativi di capire una persona che ci sta lasciando, come la propria madre, contenuti nel suo film a breve in uscita negli Stati Uniti.
Ma torniamo a Natalia Ginzburg e al suo mestiere di scrittrice. Non è un caso che la Ginzburg sottolinei la parola mestiere che implica una serie di significati nelle lingue romanze. Nella lingua latina mestiere è una parola associata al lavoro manuale, il risultato di un laboratorio artigianale che implica la competenza di mansioni tecniche. Ma la parola mestiere è anche collegata a mysteriu/misterioso da cui deriva anche ministeriu. Questa combinazione appare nei testi religiosi latini nel Medio Evo. Nella lingua gallo romanza, il significato di mestiere si estende anche a “bisogno” o “all’essere necessario.” Tutte queste connotazioni sembrano essere parte integrante alla visione ed esperienza della scrittura descritta dalla Ginzburg. Vi è implicita una idea del “fare,” dello scrivere come un processo che collega il lavoro paziente e meticoloso dell’artigiano con il lavoro dell’intellettuale. La mente e il corpo, il lavoro manuale e intellettuale, sono per Ginzburg, così come per altri intellettuali antifascisti della sua generazione come Cesare Pavese, strettamente collegati. Cesare Pavese, con cui Ginzburg condivide anni di lavoro presso Einaudi nel dopoguerra insieme a Italo Calvino, aveva definito lo scrittore come “operaio della fantasia,” e non a caso aveva intitolato il suo diario con Il mestiere di vivere: Diario 1935-1950.
Dunque c’è una ricerca attenta delle parole e del loro peso e delle loro valenze semantiche che contraddistingue il lavoro dello scrittore. La letteratura dunque è il campo e il laboratorio privilegiato per sperimentare con la lingua e anche la fucina dove forgiare parole e metodi nuovi per capire se stessi, la realtà, la storia. La scrittura letteraria contribuisce in maniera unica alla riscrittura della storia con nuove e inedite cornici interpretative. Non a caso il romanzo “storico” e autobiografico Lessico Famigliare pubblicato nel 1963, pone l’accento fin dal titolo sulla parola “lessico,” quasi una definizione scientifica o tecnica delle parole, e “famigliare” dall’altra come a smorzare l’autorità delle stesse parole. Infatti come ha giustamente sottolineato Valerio Magrelli, nella serata all’Istituto di Cultura, Natalia Ginzburg ripensa il lessico e lo colora di quella intimità che contraddistingueva le conversazioni e le memorie della sua famiglia, la cui dimensione intima e privata si intreccia alla storia dell’Italia durante il regime fascista e gli anni dell’immediato dopoguerra. E la storia nella scrittura della Ginzburg si nasconde in dettagli quotidiani e inaspettati, in gesti di ogni giorno, in idiosincrasie, come quando descrive la maniera schiva e introversa di Cesare Pavere e la sua maniera di porgere la mano per i saluti o il modo in cui si annodava la sciarpa. La ritrosia e la grande lucidità intellettuale di Cesare Pavese, l’eleganza della sua scrittura sono identificate con la città di Torino nello stupendo ritratto che scrive dopo il suicidio dell’amico e pubblicato nelle Piccole Virtù.
La letteratura, e si vede bene nell’opera di Natalia Ginzburg, aiuta a capire le qualità della memoria ma anche il suo valore cognitivo sia per l’individuo che per la collettività. Tra i neuroscienziati, è stato Oliver Sacks a evidenziare che la qualità essenziale della memoria non è quella di “riprodurre” ma invece quella di “ricostruire.” È proprio questo atto di ricostruzione di pezzi, frammenti, parole e gesti che abita il lavoro della scrittura che materializza quello che come essere umani facciamo inconsciamente o meno, ogni giorno. Il lavoro di ricostruzione significa anche scoprire nel presente cose ed eventi di cui non avevamo coscienza e la scrittura a volte quasi “misteriosamente” rivela proprio questi angoli bui e polverosi della memoria e del passato. La scrittura è un processo complesso e il mestiere di scrivere descritto dalla Ginzburg è, tutt’oggi, un manifesto che valorizza non solo l’etica del lavoro ma anche le qualità speciali della letteratura a rilevare quello che della storia e di noi stessi resiste alla rappresentazione, alla facile visibilità e spettacolarità. Scrivere vuol dire approfondire le pieghe della nostra intimità, scavare nelle ferite, esporre gli angoli in ombra e far parlare anche coloro che sono e sono stati soppressi dalle storie ufficiali. Il mestiere di scrivere per Natalia Ginzburg è un appello a non dimenticare e anche a continuare a cercare parole nuove per raccontare e raccontarsi.