Le edizioni Giuntina di Firenze hanno appena pubblicato in Italia, per la traduzione di Shulim Vogelmann, un classico della letteratura israeliana, È questa la terra promessa?, di Eli Amir (la prima edizione in ebraico è del 1983).
La storia, autobiografica, è quella di Nuri, un ragazzo nato a Baghdad e immigrato in Israele agli inizi degli anni '50, assieme ai genitori. All'epoca gli immigrati ebrei provenienti dai paesi arabi, ospitati in campi di transito che erano di fatto una sorta di campi profughi, avevano vita dura. Come si ricorda nella prefazione di Shimon Peres, ai disagi di chi ha lasciato tutto alle spalle, si sommava il fatto di provenire da un retroterra “mediorientale, conservatore e tradizionalista”. Alcune famiglie, per di più, decisero di mandare i loro figli in kibbutz, allora considerato il luogo migliore per essere educati e per vivere in Israele. Un kibbutz, ovvero, sottolinea ancora Peres, un luogo di “formazione sociale rivoluzionaria il cui scopo era creare un ebreo nuovo, un pioniere che sarebbe stato sia un agricoltore che un intellettuale, un ribelle laico e il creatore di una cultura nuova di zecca”.
Di solito questi esperimenti tesi alla creazione dell'“uomo nuovo” sono sfociati in tragedia o sono comunque finiti male. L'uomo, generalmente parlando, è la bestia che sappiamo, e chi cerca di spingerlo a forza verso sorti magnifiche e progressive spesso è portatore di mali peggiori rispetto a quelli che vorrebbe curare. Il kibbutz, avamposto avanzato della frontiera israeliana dove condurre una vita comunitaria, dividendo tutto, dai proventi del lavoro all'educazione dei figli, in questo senso si è “salvato”. Non a caso esso sopravvive ancora oggi in Israele anche se spesso è dovuto venire ai patti con la realtà (se poi lo ha fatto fino in fondo, e qui il pensiero corre ovviamente ai palestinesi). Sia come sia, in qualche caso esso rimane uno dei pochi esempi di “collettività” che ancora sprigiona una propria particolare seduzione (assieme ad alcune comuni e ashram tenuti assieme da valori religiosi o filosofici).
Il libro di Amir è però al fondo soprattutto un romanzo di formazione, che ha al centro una storia di immigrazione e più in generale il tema dell'incontro-scontro fra culture diverse. Nuri all'inizio non ne vuole sapere di lasciare la famiglia. È sconvolto dalla durezza della vita nel campo di accoglienza e poi nel kibbutz. La promiscuità fra ragazzi e ragazze, la prepotenza di alcuni ai danni dei più deboli, l'omosessualità clandestina sono tutte cose a cui non era abituato e che non sa come gestire. Al tempo stesso, accoglie l'amicizia di chi gli tende una mano, si innamora di una ragazza che lo respinge, lentamente si tempra, e cambia. In questo senso, il suo è anche un romanzo sulla perdita delle radici e sulla costruzione di un'identità nuova. Come tale, ci consente di guardare al di là di Israele e del confine del kibbutz. Le scuole italiane ( non solo italiane, naturalmente, anche americane, o tedesche, o libanesi…) sono piene di ragazzi immigrati che si sforzano, giorno dopo giorno, di integrarsi in un mondo che non è quello dal quale provengono. Di essere accettati e di capire, in definitiva, chi sono e qualche posto vogliono occupare nel mondo.
Eli Amir, È questa la terra promessa?, Giuntina, 2015.