Come l'estate scorsa, apriamo anche quest'anno con Henry Miller una "finestra estiva" dedicata alle riletture, mettendo momentaneamente in stand by le novità ed in attesa delle nuove uscite dell'autunno. Per qualche puntata, dunque, parleremo di classici da scoprire o meglio riscoprire, consapevoli, con Nabokov (e con Tim Parks, autore di un intervento sul tema nell'ultimo numero della New York Review of Books) che solo dopo successive letture possiamo iniziare a guardare ad un romanzo come guarderemmo ad un quadro, apprezzandone la struttura generale.
Partiamo con un "classico minore" dedicato a New York e a Brooklyn, Plexus di Henry Miller, secondo titolo della trilogia The Rosy Crucifix, che comprende anche Sexus e Nexus, dedicata dall'autore ai suoi anni giovanili e alla relazione con la seconda moglie June, prima del trasferimento a Parigi e delle più note vicende raccontate in Tropico del Cancro.
Plexus è un affresco della New York degli anni ’20, scoppiettante e picaresco, pieno di squilibri sociali, di emigranti, di telescriventi, di assegni scoperti, di amori, odi, di personaggi di ogni sorta: intellettuali e imbroglioni, venditori di dolciumi ebrei e amanti dell’arte dell’Europa dell’Est, e così via, in una girandola senza sosta. I protagonisti sono due spiantati: Henry Miller, che vuol fare lo scrittore, ma non riesce a farsi pubblicare quasi nulla, e la seducente Mona, ovvero June Mansfield, ballerina di origine rumena, che crede in lui e lavora per mantenere entrambi, spesso ricevendo soldi da misteriosi “ammiratori” su cui il marito decide, fin dall’inizio, che è meglio non indagare.
Henry Miller (Yorkville, N.Y., 1891 – Pacific Palisades, California, 1980) è un autore autobiografico. Questo, agli occhi di molti, è il suo principale limite. In effetti, quando ha provano a distaccarsi da questa formula – ad esempio con la favola Il sorriso ai piedi della scala, i saggi di Ricordati di ricordare, l'esercizio su Rimbaud de Il tempo degli assassini – i risultati non sono stati sempre eccezionali.
Tuttavia, se la regola generale in letteratura è sempre la stessa, "scrivi di ciò che conosci, ma da un certo punto in poi sforzati di prendere le distanze dalla tua vita reale", ci vogliono anche autori che questa regola la infrangono. Lo hanno fatto – spesso, non sempre – i beat, e lo fa Miller, che quando è al suo meglio è un autore generoso, sulfureo, iconoclasta.
L'altro problema di Miller è che viene immediatamente associato al sesso e solo al sesso. Il che fino a un certo punto ci sta. Il suo Tropico, che gli diede un successo enorme anche se un po' tardivo, soprattutto in America, dove venne diffuso dopo un memorabile processo che ne sancì il valore di opera artistica, di questo parlava: di boheme parigina e esplorazioni sessuali, descritte con dovizia di particolari. La relazione con Anais Nin, altra autrice ricordata soprattutto per i racconti erotici, ha fatto il resto.
Ricordo un racconto di Antonio Franchini, dal suo libro di esordio Camerati, in cui Miller viene rappresentato come la tipica lettura degli studenti universitari vagamente artistoidi degli anni '70. La sufficienza con cui a volte l'opera di Henry Miller viene liquidata è indizio del fatto che esiste anche un conformismo dell'anticonformismo, e che esso colpisce di preferenza gli autori che a volte si è molto amato in gioventù, quasi fossero sinonimo di scarsa qualità (ma ricordiamoci che il primo a certificare il valore dell'americano fu un certo George Orwell).
Scrivere di sesso in realtà non è facile, lo sappiamo bene noi lettori del XXI secolo: il web è pieno di storie erotiche, basta digitare su Google la parola "racconti", così, senza ulteriori aggettivi, per rendersene conto. Spesso sono molto più hard di quelle che raccontava Miller, ma non hanno un briciolo di qualità letteraria. E non offrono alcuno spunto di riflessione. Per Miller l'eros è un motore prodigioso, ma è anche metafora e "ponte" verso altre forme di conoscenza. E se spesso è condito di cinismo e spacconate, non si può certo mettere in dubbio che lo scrittore abbia vissuto le sue relazioni con grande trasporto, senza mai giocare al risparmio.
In ogni caso Plexus sembra fatto per smontare almeno questo secondo cliché. L'autobiografismo costituisce anche qui la cifra stilistica della narrazione. Il sesso, però, non è quasi presente. Il racconto si apre con la coppia che affitta un appartamento a Brooklyn versando una caparra ridicola, bluffando come sempre, e procede raccontando per filo e per segno gli anni difficili, ma anche molto ricchi di esperienze dell’apprendistato di Miller, prima del suo trasferimento in Europa, ostacolato dai rifiuti degli editori e attraversato al tempo stesso da tante diverse passioni, la letteratura, l'arte, la politica (un'occhiata al celebre epistolario con la Nin è sufficiente, del resto, per rendersi conto della ricchezza degli interessi che hanno arricchito la sua vita).
In Plexus abbiamo anche degli splendidi ritratti della New York degli anni '20 e degli squarci di memoria su una città anche più vecchia. "Sono un patriota: della 14ª Sezione Brooklyn, dove sono cresciuto. Per me il resto degli Stati Uniti non esiste se non come idea, o storia, o letteratura"; così Miller si è definito una volta, pur scegliendo in seguito di vivere la seconda parte della sua vita, quella meno tormentata, a Big Sur, in California.
“Una breve passeggiata in una qualsiasi direzione – leggiamo – mi conduceva nelle regioni più diverse: la zona fantastica sotto il traforato merletto del ponte di Brooklyn; il sito degli antichi traghetti, vicino ai quali arabi, siriani, turchi, greci e altri levantini si erano radunati a frotte; i docks e i wharves dove riposavano all’ancora i piroscafi del mondo intero; il centro commerciale vicino al municipio, zona che di notte è spettrale (…)”. Miller racconta tutto questo con il piglio del vero scrittore: appassionandosi ai dettagli, scandagliando l’animo delle persone con cui viene a contatto così come il proprio, e sigillando il tutto con notevole sense of humor.
In queste pagine, d’altro canto, non si deve cercare il plot avvincente. Chi desidera i colpi di scena rimarrà deluso. Henry Miller ha condotto una vita senz'altro non monotona, e tuttavia è uno scrittore che ama la divagazione, la fitta trama dei dialoghi, e che certo porta profondo rispetto per le proprie opinioni, che tira fuori a piene mani. Narrando un pezzo di vita in questo modo – oltretutto nell'ambito di una trilogia – è inevitabile che ne esca un affresco complesso, ma un po' dispersivo. Il gusto del lettore sta nel mettersi nei panni di un classico ribelle americano, colto ma assolutamente non-accademico, un figlio di immigrati tedeschi, con un padre sarto a Manhattan che aveva tentato senza fortuna di mettergli le briglie e mandarlo all'università, deciso a confrontarsi con i grandi modelli della letteratura dell'8-900, nutrendosi di una enorme, certamente egoistica, ambizione e di un enorme appetito per la vita. Senza rinunciare a nulla, strada facendo: piccole truffe, angoscia creativa, lavori rifiutati perché poco consoni alla sua indole artistica, litigi e riconciliazioni con June, cene a scrocco, bevute, passeggiate, sesso, parole, libri, teatri, incontri, tentazioni … New York.
Henry Miller, Plexus, prima edizione italiana Longanesi, 1956.
Prima edizione in lingua inglese per la parigina Olympia Press, 1956.
La trilogia The Rosy Crucifixion venne pubblicata in America, da Grove Press, solo nel 1965, dopo la sentenza della Corte Suprema che, l’anno prima, aveva definitivamente sdoganato Tropico del Cancro. Fino ad allora i lavori di Miller erano perlopiù conosciuti in Europa e venivano importati negli USA clandestinamente.