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April 26, 2015
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April 26, 2015
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A casa di Dylan Thomas

Marco PontonibyMarco Pontoni
Time: 4 mins read

Le case in cui sono nate le persone famose dovrebbero avere un'aura, un'impronta. Si potrebbe pensare che erano predestinate ad ospitare, ad esempio, un poeta che ha fatto sognare diverse generazioni. E invece, possono essere posti così, come la casa di Dylan Thomas a Swansea, Galles. Una casa come tante, messa in fila con altre su per una lunga salita perfida, che toglie il fiato ai visitatori. Fino a 10 anni fa non era nemmeno un luogo di pellegrinaggi, il comune che ne era proprietario l'affittava agli studenti. Adesso è un museo, e a volte ospita delle serate "speciali", come quella di oggi, con Deke Leonard, anziano rocker, già leader dei Man, band che ebbe un seguito soprattutto negli anni '70, a fare salotto e a intrattenere una ventina di ospiti con i ricordi della sua vita on the road, veramente wild.

Questa settimana non ho una recensione perché non ho letto nessun libro nuovo, sono venuto quassù, nel Galles, in pellegrinaggio nei luoghi del poeta. Dylan Thomas è stato tanto amato, in vita e dopo la morte, ma ad amarlo in maniera particolare sono stati gli americani. La sua fama è stata quasi pari a quella delle rockstar, prima delle rockstar. La morte lo ha colto lontano da qui, a New York, il 9 novembre del 1953. Cinque giorni prima era entrato in coma alcolico, nella sua stanza al Chelsea, l'hotel che ha ospitato più artisti al mondo, e che lo ricorda con un tondo all'ingresso, onore riservato a pochi. Adesso qui a Swansea e attorno alla sua casa natale si è creato un piccolo movimento di opinione per salvarla, quella stanza, dagli appetiti dei nuovi proprietari del Chelsea, che vorrebbero ristrutturare tutto, per rendere lo stabile più appetibile a futuri compratori.

interni 1Così, è sabato sera e sono appena uscito dalla casa natale di Dylan Thomas, dopo il concerto/recital di Deke Leonard nel salotto, per un pubblico molto over '50. Sono qui nella mia stanza che penso intensamente al poeta mai cresciuto, che una volta si definì "un gallese, poi un alcolista e infine un amante della razza umana, specie delle donne", e che uno spocchioso critico italiano ha rimproverato di essere uno dei principali responsabili del mito dello scrittore alcolizzato (assieme a Hemingway e a non mi ricordo chi, forse Kerouac).

Intanto leggo alcuni suoi versi, non perché li ami tutti allo stesso modo ma perché mi dico che doveva essere un bel tempo quello in cui i poeti erano acclamati come rockstar, vuol dire che la gente sentiva intensamente il bisogno della poesia e un po' anche di identificarsi con chi la poesia la faceva (anche se io la penso un po' come Eliot e credo che gli scrittori dovrebbero scomparire dietro alla propria opera). E penso ancora al poeta panico, mentre mi mangio un tramezzino, poeta della natura che spinge e succhia e si moltiplica e muore incessantemente, poeta per immagini, "cinematografico" (scriveva recensioni di film sul giornale della scuola, da ragazzo, e parlò del legame fra la sua poesia e il cinema anche in una delle sue ultime conferenze a New York, proprio prima di morire). 

Penso al poeta della memoria, dei lutti familiari, al poeta della morte, a cui dedicò una delle sue composizioni più famose, Do not Go Gentle into that Good Night, e al poeta che non si rifiutò di scrivere della morte che cadeva dal cielo sull'Inghilterra, a cavallo delle bombe naziste, che visse umilmente in mezzo alle macerie (mentre Eliot sui tetti di Londra faceva l'avvistatore, due modi diversi di affrontare la guerra, entrambi pieni di dignità). Penso al poeta-bardo che reinventava i miti della sua terra, i cicli della fertilità, bisognerebbe tenere sempre a portata di mano Il ramo d'oro di Frazer quando si legge Dylan Thomas.

2Poeta di accostamenti arditi, di immagini e suggestioni che si sdoppiano, si moltiplicano, si possono sfogliare come petali di un fiore e ciascun petalo ha vita propria, a volte le sue poesie sono oscure, si fatica a coglierne il nucleo, la struttura, per questo forse piacque ai beat, Bob Dylan si dice prese da lui il cognome, e anche nei versi cantati dal Dylan americano il nucleo a volte si perde, le visioni si moltiplicano, e scivolano oltre il bordo.

Poeta rurale, del Galles, dei pub e dei fiumi che scorrono incessantemente verso il mare, cristiano e pagano, erede delle falloforie, dei cicli della morte e della rinascita che scandiscono il tempo nelle società contadine, poeta istrionico, spaccone, fisico, morto in una metropoli in un picco di inquinamento, soffocato da 18 whisky lisci e dai fumi.

Mentre andavo a Swansea, stamattina, da Londra, sul pullman, ho letto alcune sue poesie e ho scattato delle foto in movimento alla campagna oltre l'asfalto, oltre gli alberi e i cespugli che bordano le autostrade e a volte impediscono la vista. Poi mi è venuta voglia di scrivere, per imitazione, perché quando leggi un grande poeta ti viene voglia di scrivere come quando vedi una grande scena di letto al cinema ti viene voglia di fare l'amore. È il principio dell'imitazione che ci muove, ci rende ambiziosi e futili.

E così, questo è il mio regalo a La Voce per il 25 aprile, che sta finendo adesso, mentre scrivo e ingoio tramezzini notturni, perché liberazione deve essere anche dalle nostre "case del cervello", come le chiamava lui, e dai nostri manicomi, nei quali imploriamo di respirare aria fresca e ci sbattiamo.

 

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Marco Pontoni

Marco Pontoni

Sono nato in Sudtirolo 50 anni fa, terra di confine, un po' italiana e un po' tedesca. Faccio il giornalista e ho sempre avuto un feeling per la narrazione. Ho realizzato video e reportages sulla cooperazione allo sviluppo in varie parti del mondo. Finalista al Premio Calvino, ho pubblicato il romanzo Music Box e, con lo pesudonimo di Henry J. Ginsberg, la raccolta di racconti Vengo via con te, tradotta negli USA dalla Lighthouse di NYC con il titolo Run Away With Me. Ho da sempre una sconfinata passione per gli autori americani, Lou Reed, l'Africa, la fotografia, i viaggi e camminare.

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