“La capacità di aiutare gli immigrati e i loro figli ad assimilare le norme della nuova società varia da un paese all’altro. L’America è tra i paesi che vi riescono meglio. I bambini che crescono in America quasi inevitabilmente assimilano i valori americani. Ben diversa è la situazione in Europa. I fatti dimostrano sempre più spesso che accade esattamente il contrario: i figli degli immigrati sono più restii dei loro genitori ad abbracciare la cultura nazionale”.
Questa citazione, dal libro Exodus. I tabù dell’immigrazione, di Paul Collier, docente ad Oxford, già direttore di ricerca alla Banca Mondiale e consulente del governo di Tony Blair, uscito negli USA (col titolo Exodus: How Migration is Changing Our World) e in UK nel 2013 e appena tradotto in Italia, sintetizza piuttosto bene il pensiero dell’autore.
Potremmo definirlo un libro “assimilazionista” sull’immigrazione, che prende le distanze sia dalla chiusura e dal razzismo manifestato dalle destre europee, sia dal “mondialismo” di certa sinistra, per la quale, sulla scorta delle dottrine illuministe, siamo tutti cittadini del mondo e quello che conta è che tutti ci riconosciamo in alcuni valori universali, a prescindere dalla nazionalità e dalla cultura di riferimento (il modello “villaggio globale” condiviso in Inghilterra da Gordon Brown).

Paul Collier, già direttore di ricerca alla Banca Mondiale e consulente del governo Blair
Collier, anzi, da buon inglese, immagino, crede nella comunità e nella nazione: lo fa da posizioni riformiste, sottolineando come chi ignora questi dati di realtà si metta in fondo dalla stessa parte dei liberisti estremi. È stata Margaret Tatcher, ricorda, a dire che la società non esiste, che esistono solo gli individui.
L’immigrazione, in quest’ottica, presenta sì dei vantaggi – dalla varietà e dal rimescolamento di solito gli organismi ne escono rafforzati – ma anche dei rischi. Innanzitutto sul piano economico, troppi immigrati equivalgono a troppa gente in cerca di un lavoro e quindi, specie se il mercato è saturo, a salari più bassi anche per gli autoctoni (ovvero, lotta fra poveri). Ma il rischio maggiore consisterebbe nell’appannamento dell’identità nazionale, del senso di appartenenza ad una comunità costituita da persone che si assomigliano, che condividono lingua, valori di riferimento, aspirazioni.
Perché il senso di appartenenza è importante? Collier da a questa domanda una risposta riformista: a prescindere dal fatto che esso possa rappresentare un valore in sé, è necessario per avere uno stato sociale degno di questo nome. Lo stato sociale, il welfare state, si sostiene con il contributo di tutti i cittadini (materiale e morale). E i cittadini saranno tanto più disposti a pagare le tasse, a fare dei sacrifici per la collettività, ad accettare politiche redistributive della ricchezza, persino a dedicare parte del loro tempo al volontariato, quanto più sentiranno di farlo per qualcosa che è anche loro, qualcosa a cui appartengono e a cui si sentono legati. Qui il pensiero corre all’Italia dell’evasione fiscale, della corruzione, delle raccomandazioni, l’Italia del cosiddetto familismo amorale, caratterizzata da un bassissimo senso delle istituzioni e da una labile coscienza nazionale (tranne quando si parla di calcio). Un’Italia dove ognuno è convinto di doversi arrangiare da sé, cercando scorciatoie “perché tanto fanno tutti così e i politici sono i peggiori di tutti”. Un’Italia che assomiglia pericolosamente alla Nigeria raccontata da Collier, che è anche un esperto di economie africane. Un paese “coinvolgente e vivace (…) ma i nigeriani mancano totalmente di fiducia gli uni negli altri. L’opportunismo è il frutto di decenni, forse secoli, durante i quali fidarsi sarebbe stato un atto di eroismo”.
Individualismo e opportunismo, comunque, non sono solo nemici del welfare state ma anche del benessere e della prosperità della nazione tout court. A differenza dei neoliberisti spinti – lo ripetiamo perché questo è il cuore dell’analisi – Collier ritiene infatti che in un’economia moderna “il benessere aumenta notevolmente in funzione di quella che potremmo chiamare mutua considerazione”. Al tempo stesso, in una società ricca la mutua considerazione si estende oltre i confini del clan, dell’etnia o della comunità locale, fino ad abbracciare tutti i “cittadini”.
Ma le migrazioni mettono in crisi l’idea di cittadinanza. Affinché, con il loro effetto disgregatore, non abbattano il tasso di mutua considerazione presente nelle società di accoglienza, spingendo ciascuno a chiudersi in difesa e a pensare solo a se stesso, sarebbero necessarie due cose: controllare le dimensioni del fenomeno – Collier dice no alla mobilità assoluta, anche perché uno dei risultati paradossali che essa potrebbe produrre è lo svuotamento dei paesi di origine – e soprattutto far sì che gli immigrati si adeguino rapidamente alle norme di fiducia del paese ospitante, abbracciandone i valori, gli stili di vita e i modelli di comportamento.
In altre parole le ricette, se così possiamo chiamarle, sono il controllo dei flussi (ogni paese deve chiedersi, secondo l’autore, qual è il “giusto grado di diversità sociale” che è in grado di sopportare) e poi lo sviluppo di politiche che prevengano la creazione di comunità di immigrati chiuse, che conservano la cultura del paese di provenienza e non si assimilano agli autoctoni (quindi gli autoctoni devono aprire le loro organizzazioni agli immigrati e gli immigrati imparare la lingua del paese che li accoglie e non rimanere tra loro).
Ho riassunto in maniera per forza di cose un po’ brutale questo libro denso e complesso, ma anche di facile lettura per il suo approccio interdisciplinare, un libro che Robert Putnam (non ha caso l’inventore della definizione familismo amorale) ha definito “lettura imprescindibile indipendentemente dalle proprie convinzioni”.
Tante cose si potrebbero osservare: ad esempio che l’autore forse sottostima il valore delle comunità che si collocano ad un livello inferiore rispetto a quello della nazione (le regioni, ad esempio, o le municipalità) e così facendo forse esprime un giudizio troppo duro anche nei confronti dell’Africa e delle sue culture (difficile si sviluppi il senso di appartenenza ad una nazione, che esso prenda il posto della fedeltà all’etnia, in paesi i cui confini sono stati tracciati col righello in Europa, quasi un secolo e mezzo fa). Si potrebbe anche osservare che idealizza troppo il capitale di mutua considerazione presente nelle società occidentali: la stessa America, ad esempio, non presenta agli occhi di un europeo alti livelli di mutua considerazione, se guardiamo a quanta fatica hanno fatto i democratici per cercare di estendere almeno in parte l’assistenza sanitaria a quei milioni di americani che ne erano sprovvisti, tutti o quasi appartenenti ai ceti più bassi. Potremmo aggiungere ancora che i valori della solidarietà, del mutuo aiuto, della ricerca del benessere collettivo, non necessariamente vengono meno a causa delle migrazioni, anzi, forse in certi contesti si sono addirittura rafforzati, mentre prima il benessere li aveva un po’ spenti (quante organizzazioni del privato-sociale oggi si dedicano all’accoglienza dei migranti o alla cooperazione allo sviluppo?). Infine, potremmo dire schiettamente che non è facile per nessuno né tantomeno moralmente giustificabile ributtare a mare chi fugge da guerre come quella siriana o somala o da dittature come quella Eritrea: l’Italia ne sa qualcosa.
Tuttavia il volume rimane una lettura importante, in particolare, credo, per chi liquida con troppa leggerezza il problema dell’impatto delle migrazioni sulle comunità ospitanti e la loro identità. Troppa identità può portare al conformismo, al totalitarismo e anche all’orrore – lo abbiamo visto nelle guerre balcaniche – ma poca o nessuna identità (parliamo ovviamente di identità collettive, ovvero di quell’insieme di lingua, leggi, tradizioni, valori e aspirazioni che tiene insieme le società e le nazioni) può portare alla disgregazione, al conflitto sociale perenne, al cupo orizzonte hobbesiano dove i più forti prosperano comunque e gli altri soffrono, che siano immigrati o autoctoni.
Paul Collier, Exodus. I tabù dell’immigrazione, Laterza, gennaio 2015.
In inglese, edizione UK: Paul Collier, Exodus. Immigration and Multiculturalism in the 21th Century, Oxford University Press, 2013; edizione USA: Exodus. How Migration is Changing Our World, Oxford University Press, 2013.