Ognuno nota qualcosa di diverso quando arriva a New York. Paolo Cognetti la prima volta si accorse che tutti sembravano ignorare l’uso delle tende, e così, ogni sera, guardando le finestre della casa di fronte, aveva l’impressione che stesse andando in scena un piccolo spettacolo teatrale. Un bambino con un telescopio, un uomo addormentato davanti alla tv, tre ragazze in pigiama che ballavano e così via. E poi, “la sorpresa di sbarcare nel Nuovo Mondo e scoprire una città vecchia: non come sono vecchie quelle europee, che sono vecchie come monumenti, ma vecchia come una fabbrica abbandonata, o una casa di famiglia, o gli edifici ferroviari che si vedono appena fuori dalle stazioni, o i luna park in disuso”.
Guide su New York ne escono tutti gli anni a bizzeffe, ma i due libri dedicati alla “città che non dorme mai” da questo autore milanese, New York è una finestra senza tende, del 2010, e il più recente Tutte le mie preghiere guardano verso ovest, uscito nell’estate del 2014, mi sento di consigliarli con particolare calore. Perché sono scritti bene, con passione e poesia. Perché sono “personali”, non pretendono di spiegare tutto, di dare delle informazioni, ma provano a condividere dei pensieri, delle sensazioni, dei moti dell’anima. E perché sono guide – se vogliamo chiamarle così – molto letterarie.

L’autore Paolo Cognetti (Foto: Niko Giovanni Coniglio).
Nel primo dei due lavori lo si intuisce già dai titoli dei capitoli, ad esempio Kaddish per un sogno (Lower East Side), o Dove vanno le anatre di Central park d’inverno? (Midtown Manhattan). Il lettore smaliziato non avrà fatto fatica a riconoscere i richiami al poeta Allen Ginsberg e a Jerome David Salinger, l’autore del Giovane Holden. Ma i nomi che si inseguono in queste pagine sono un’infinità, ovviamente: da Withman a Poe, da Melville a Lethem e chi più ne ha più ne metta.
Perché New York è così: una città che molti hanno scoperto sui libri o sulle tavole dei fumetti, prima del primo, fatidico viaggio. Magari è la New York di Rick Moody, quella che i protagonisti di Garden State (in italiano Cercasi batterista, chiamare Alice) cercano invano di raggiungere, dal New Jersey, senza mai riuscirci, se non proprio nell’ultima pagina, quando, usciti dalla stazione degli autobus, “con tutto quello che avevano davanti, alzarono lo sguardo”. O quella di Dos Passos, l’isola dei marinai e dei miliardari, dei poveracci che vogliono raggiungere il posto “dove succedono le cose” e dei disillusi, di quelli che hanno perso tutto inseguendo quelle luci che a Manhattan brillano più che altrove.
Cognetti resiste alla tentazione enciclopedica, anche solo a rimanere sul terreno della New York letteraria. Confessa di non essere uno studioso, ma un lettore. Però scorrendo queste pagine introspettive si imparano anche tante cose. Che “Grande Mela”, il più celebre dei soprannomi della città, viene dal gergo degli schiavi africani e allude alla fortuna, alla ricchezza e forse anche al peccato. Che la paternità di Gotham city, l’appellativo affibbiatole nel 1939 da Bob Kane, il creatore di Batman, spetta in realtà a Washington Irving, il quale, già all’inizio dell’800, era venuto a conoscenza dell’esistenza di una cittadina inglese dagli abitanti particolarmente eccentrici chiamata così, e aveva deciso di riciclare quel nome nei suoi articoli (prontamente imitato da Edgar Allan Poe che curava addirittura una rubrica intitolata Cronache da Gotham).

La copertina del libro “New York è una finestra senza tende”.
Ma ci sono anche gli aneddoti più “turistici”, quelli in cui prima o poi ogni viaggiatore si imbatte. Ad esempio quello sul pennone dell’Empire State Building, progettato in origine come un attracco per dirigibili (ovviamente “tra vento e fulmini si rivelò ben presto il posto peggiore del mondo dove ormeggiare un dirigibile, e così fu convertito ad antenna televisiva”).
Nel libro dello scorso anno la vena narrativa si accentua ulteriormente. Qui al posto della meraviglia della scoperta troviamo il piacere sottile del riconoscimento, quello che si prova ritornando nei luoghi che si sono già abitati. Gli alberi, gli incroci, il sapore della Brooklyn lager. Cose che non cambiano mai, mentre cambiano gli occhi di chi le osserva. Ma anche cose che non ci sono più o che prima non c’erano, la Freedom Tower, ad esempio, o la High Line. E poi, l’attenzione si focalizza su un tema che lega passato e presente: il cibo. Dalle piantine di basilico che gli emigrati coltivavano sui davanzali ai negozi esotici dell’odierna Chinatown, (passando per i Five Point resi celebri dal film Gangs of New York di Scorsese), passeggiando o pedalando in solitudine, meditando sul fatto che la città – e la memoria – ti cambiano, inesorabilmente.
Cognetti, scrittore e autore di documentari, è nato a Milano nel 1978. Finalista al premio Strega 2013 con Sofia si veste sempre di nero (Minimum Fax), dichiara la sua affinità spirituale con Christopher Johnson McCandless, ovvero “Alexander Supertramp” (il ragazzo protagonista della vicenda narrata anche dal film Into the Wild, oltre che dal celebre libro di John Krakauer). Ha un suo blog e quando può scappa in montagna. Nel 2014, oltre al libro di cui parliamo in questa rubrica, è uscito anche A pesca nelle pozze più profonde (Minimum Fax), totalmente dedicato alla narrativa americana.
Paolo Cognetti, New York è una finestra senza tende, Laterza, 2010.
Paolo Cognetti, Tutte le mie preghiere guardano verso ovest, Edt, 2014.