È finalmente uscita in Italia per Garzanti Truman Capote, la biografia "collettiva" scritta da George Plimpton sull'autore di A sangue freddo e Colazione da Tiffany, pubblicata negli USA in prima edizione nel 1997. Plimpton è straordinario: di lui avevo già letto, anni or sono, Edie, altra biografia realizzata, come questa, con il metodo dell'intervista, dedicata alla più famosa superstar uscita dalla Factory di Andy Warhol, Edie Sedgwick. Anche in quell'occasione, raccontare (assieme a Jean Stein) la vita del personaggio prescelto, attraverso le testimonianze di coloro che lo avevano conosciuto, rappresentava l'occasione per ricostruire un mondo, in tutte le sue sfaccettature. Nella biografia di Capote (1924-1984) il metodo è lo stesso: dove diversi amici, nemici, conoscenti e detrattori ricordano la sua vita turbolenta, recita giustamente la scritta riportata sulla copertina dell'edizione italiana (così come in quella originale americana).
"Turbolenta" è una definizione azzeccata; potremmo scrivere, tutto sommato, anche "felice", pur se segnata, specie verso la fine, da abusi di alcol e farmaci tipici dei mondi frequentati dall'uomo. Sì, perché Truman Capote seppe costruirsi, giorno dopo giorno, la vita che aveva desiderato vivere fin da quando era ragazzo, una vita sopra le righe, baciata in fronte dai riflettori del successo. Dunque una vita fatta di acuti (come acuto era il timbro della sua voce), di successi letterari e di mondanità, pur partendo dalla gavetta, da una posizione di umile fattorino nella redazione del New Yorker, anzi no, "umile" è probabilmente la parola meno adatta per descrivere questo giovane aspirante scrittore trapiantato da un paesino dell'Alabama nella Grande Mela.
Capote era cresciuto a Monroeville, minuscolo centro agricolo del Sud, lontano da tutto, che pure ha allevato due star della letteratura mondiale, oltre a lui anche Harper Lee, l'autrice del celebre, amatissimo Il buio oltre la siepe (To kill a mockingbird). "Harper Lee viveva alla porta accanto – dice Matthew Rhodes, uno dei tanti testimoni intervistati da Plimpton – È stupefacente pensare che da un paese dell'Alabama così piccolo siano usciti ben due scrittori famosi. Qualcuno ha proposto di mettere un cartello stradale per definirlo il paese di Harper Lee e Truman Capote".
Gli esordi sono difficili: la madre si separa in fretta dal marito nullafacente per andarsene a New York, lasciando Truman in (amorevole) balìa delle cugine. Il ragazzo, comunque, cresce bene, manifestando fin dall'inizio doti di intelligenza e stravaganza precoci. Coltiva con la Lee il sogno della scrittura e, quando la madre decide di riprenderlo con sé e di portarlo a New York, trova il tempo di chiudere la sua permanenza a Monroeville con una clamorosa (per il luogo) festa in maschera, nel corso della quale si permette persino di farsi beffe del locale Ku Klux Klan.
Quella alla scrittura è una vocazione scoperta molto presto: “Iniziai a scrivere quando avevo circa otto anni – dichiarerà in un’intervista del ’67 – Scrivere è sempre stata la mia ossessione, era semplicemente una cosa che dovevo fare, e non capisco neanch’io esattamente perché dovesse essere così. Era come se fossi un’ostrica e qualcuno mi avesse infilato a forza un granello di sabbia nella conchiglia…”.
A New York, Capote trova l'ambiente che gli è più confacente. La sua ascesa ai più prestigiosi salotti cittadini è veloce, favorita da un carattere a dir poco estroverso, che gli consente di incantare per ore intere platee con racconti che mescolano abilmente realtà e fantasia (la formula che ritroveremo poi in alcune delle sue opere più famose).
Presto arrivano anche le prime prove letterarie: è interessante notare come all'epoca uno dei principali canali che gli autori utilizzavano per proporre i loro lavori al grande pubblico fosse quello delle riviste, come Harper's Bazaar, che gli pubblica i primi racconti. Vengono in seguito L'arpa d'erba e soprattutto Colazione da Tiffany, dato alle stampe nel 1958, da cui nel 1961 viene tratta la fortunata pellicola diretta da Blake Edwards, con Audrey Hepburn e George Peppard.
Nel frattempo, le storie d'amore, prima fra tutte quella con Newton Arwin, un accademico a tutto tondo che vive con profondo disagio la sua omosessualità e che ad un certo punto viene travolto dallo scandalo (non a causa del suo giovane compagno ma di alcune pubblicazioni a sfondo erotico ordinate per posta). Amori contrastati e amicizie interessate accompagneranno anche l'ultima parte della vita di Capote, la più triste, la più simile a quella di tante "stelle cadenti" della New York degli anni '70 ed in particolare della corte di Andy Warhol (a cui approderà come collaboratore della rivista Interview).
Uno spazio centrale nella biografia è però, inevitabilmente, quello occupato da A sangue freddo, pubblicato nel 1966. La vicenda della stesura di questo libro, capostipite, nelle intenzioni dell'autore, del genere "romanzo-documento" (oggi parleremmo di docu-fiction) è stata ricostruita nel 2005 da un film di Bennet Miller con Philip Seymour Hoffman nella parte del protagonista, un'interpretazione giudicata molto efficace. In pratica il New Yorker aveva offerto allo scrittore la possibilità di occuparsi di due storie, quella del massacro di una famiglia di semplici agricoltori (padre, madre e due figli), avvenuto nell'Arkansas, apparentemente senza alcuna ragione, o quella di una donna delle pulizie a servizio nelle case dei ricchi. Truman decise di occuparsi della prima, "la più facile", su consiglio di Slim Keith, uno dei suoi “cigni” (come Truman chiamava la sua cerchia di amiche intime, rigorosamente femminili, delle quali raccoglieva le confidenze).

George Plimpton
In realtà l'esperienza lo segnerà per il resto della sua vita. Trasferitosi nella cittadina teatro del delitto, assieme ad Harper Lee, portandovi la stravaganza dei suoi abiti e del suo modo di fare, conobbe veramente i due assassini, Perry Edward Smith e Richard Eugene Hickock, identificandosi in parte anche con uno di essi, che era stato abbandonato da piccolo. Il libro, una sorta di reportage non sempre aderente alla realtà, come osservano alcuni testimoni intervistati da Plimpton, potè essere ultimato solo dopo l'esecuzione degli assassini, a cui Capote volle assolutamente assistere. Questa parte della biografia, con la descrizione della doppia impiccagione, è assolutamente agghiacciante, e rende onore al capolavoro dello scrittore. Sul perché avesse scelto proprio un omicidio per la nuova forma letteraria che sosteneva di avere inventato, il romanzo-documento, Capote dirà in seguito in un’intervista: “Mi sembrava si potesse forzare il giornalismo, il reportage, a produrre una nuova forma d’arte (…). Nel complesso, il giornalismo è il più sottovalutato, il meno esplorato dei mezzi di espressione letteraria”.
In ogni modo, la vicenda della realizzazione di A sangue freddo scatenò un lungo dibattito di carattere etico, nel quale non mancò chi stigmatizzasse il presunto voyerismo dello scrittore e il suo coinvolgimento (soprattutto epistolare) nella vicenda umana dei due condannati. Tanto più che la pubblicazione del libro tratto dalla vicenda si accompagnò al gigantesco party del 28 novembre, al Plaza Hotel di New York, il Black and White Ball, dedicato a Katherine Graham, editrice del Washington Post, con 500 invitati del bel mondo la cui lista, compilata dall'organizzatore con una devozione pari almeno a quella dedicata alle opere letterarie (e che comprendeva anche Plimpton, oltre a Frank Sinatra, Mia Farrow, Greta Garbo, la principessa Lee Radizwell, Norman Mailer, Lauren Bacall e moltissimi altri/e), venne pubblicata sul New York Times. "Il ballo fu uno dei suoi capolavori – riferisce Leo Lerman, suo amico e giornalista di Vogue e Vanity Fair – Un’opera equivalente ai suoi racconti più belli".
Sarà. Ma oltre ad avere pestato i piedi alle celebrità rimaste fuori dall'elenco, Capote si attirò anche nuove critiche: Pete Hamill, secondo alcuni l'inventore del termine new journalism (che accomuna anche Capote e Plimpton) rimase così scandalizzato dall’evento che scrisse un articolo di fondo sul New York Post in cui la cronaca del party si alternava all’elenco dei soldati morti in Vietnam. E nel 1972, quando lo scrittore seguì un tour dei Rolling Stones negli USA, Mick Jagger ebbe parole sprezzanti nei suoi confronti.
Truman Capote continuò comunque a navigare nella corrente della mondanità, per tutti gli anni '70 e i primi anni '80, animando la vita notturna newyorchese, che ruotava attorno a club come lo Studio 54, fino alla sua morte, non a New York ma a Los Angeles. Di quando in quando la sua penna continuava a graffiare, ma meno che in passato. Sopravvennero i problemi personali, l'abuso di alcol e droghe, l'epilessia. L'abbandono degli amici che in precedenza lo avevano corteggiato.
Andy Warhol non andò al suo funerale. Ma, si sa, Warhol non andava mai ai funerali. Preferiva pensare che gli amici scomparsi fossero partiti per una memorabile shopping-session da Bloomingdales.
George Plimpton, Truman Capote, Garzanti, 2014 (trad. Alba Bariffi).
Edizione originale: Truman Capote: In which Various Friends, Enemies, Acquaintances and Detractors Recall His Turbulent Career, Picador, 1998.
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