“Applicai un tampone di garza sul moncherino per impedire che sanguinasse, il furiere abbracciato al suo fucile era scosso da conati di vomito abbracciavamo i nostri fucili come naufraghi che si attaccano a irrisorie schegge di legno, Sono queste le sembianze della nostra morte, chiedeva il sottotenente indicando il kalasnikov appoggiato al muro, le sembianze della nostra morte sono questi arbusti rachitici e quest’uomo prostrato color cenere che delira, il comandante del plotone fischiava di rabbia, Egregio dottor Salazar se lei fosse qui le infilerei una bomba a mano nel culo (…)”.
Anche questa settimana un libro che parla di una guerra. Non la Seconda guerra mondiale di Vittorini, di cui ci siamo occupati domenica scorsa, una guerra assai più “periferica”, una guerra dimenticata, quella che il Portogallo parafascista di Antonio de Oliveira Salazar, uno dei più longevi dittatori europei, ha combattuto dal 1961 al 1974 per tenersi le sue colonie africane, il Mozambico, la Guinea Bissau, l’arcipelago di Capo Verde e l’Angola.
In Angola venne mandato anche Antònio Lobo Antunes (Lisbona, 1942), dal ‘71 al ‘73, in veste di ufficiale medico. Da quella esperienza nacquero i suoi primi romanzi, Memoria de Elefante e soprattutto In culo al mondo, dell’83, pubblicato in Italia solo nel 1996 grazie all’interessamento di Antonio Tabucchi, e poi più volte riedito assieme ad altri libri dell’autore.
Non so se posso definire questo romanzo un classico (avevo detto che per qualche settimana mi sarei occupato non di novità editoriali ma solo di quei testi che giacevano da qualche tempo sul mio comodino e che quest’estate ho deciso di leggere per la prima volta o rileggere). Penso che potrebbe diventarlo col tempo. Di certo oggi Antunes è considerato il maggiore scrittore portoghese contemporaneo, assieme a Saramago.
In culo al mondo è un libro difficile. La scrittura di Antunes non assomiglia a quella di tanti intrattenitori della parola contemporanei, verbo, soggetto predicato verbale, punto. È una scrittura complessa, che paga un pedaggio ai maestri del Modernismo, una scrittura fatta di frasi lunghe, che si attorcigliano, di secondarie che inseguono i pensieri del narratore, di regole della punteggiatura ignorate o, meglio, piegate alle esigenze del flusso di coscienza, di immagini, di metafore che, se le trovassimo da qualche altra parte, probabilmente respingeremmo come troppo barocche: “Un sole allegro come il riso di un poliziotto suona lo xilofono sulle persiane”.
Qui invece tutto si tiene, tutto sta in piedi. E ci investe con la sua potenza.
È notte. Un uomo si attarda al tavolo di un bar con una donna che ha appena conosciuto, lei tace, ascolta, beve, lui parla, un torrente di parole, inarrestabile, che prosegue quando i due escono dal locale, quando attraversano Lisbona per raggiungere l’appartamento di lui, in un palazzo senza grazia, da cui non si vede il mare ma solo un tratto insignificante del Tago e un cimitero.
L’uomo vive solo, si è separato dalla moglie, che pure ha amato e con la quale ha avuto un figlio, nato mentre lui era già in Angola. Ed è l’Angola al centro del racconto ipnotico dell’uomo, alter-ego dello stesso Antunes, un lungo, allucinato monologo nel quale gli orrori e le palesi assurdità della guerra coloniale si mescolano ai ricordi dell’infanzia, e alla denuncia di un paese in cui “si vive spiati dai mille occhi feroci della Polizia Politica, condannati al consumo di giornali che la censura riduceva a lodi malinconiche con l’odore di sagrestia provinciale del regime e alla fine scagliati nella violenza paranoica della guerra”.
Il narratore, è un sopravvissuto. È riuscito a tornare dall’Africa, dove ha ricucito feriti saltati in aria sulle mine piazzate dall’MPLA, il Movimento di liberazione nazionale (appoggiato dall’URSS), nelle piste che solcavano la boscaglia, dove ha assistito alle torture e alle stragi compiute dagli uomini della Pide, la polizia politica agli ordini del dittatore, così come alla brutalità dei coloni suoi connazionali, ai danni delle popolazioni locali. Ha anche atteso per ore e giorni che qualcosa accadesse, nel cuore di una guerra a bassa intensità piena di tempi morti, oltre che di morti veri, in una colonia descritta come una sonnolenta, provinciale, corrotta appendice di un paese di per se stesso periferico, ha giocato a dama con altri ufficiali e osservato i capitribù ridotti a zimbelli, ha atteso le licenze per tornare a Lisbona dalla sua famiglia, solo per sentirsi un estraneo, uno sradicato, al pari di tanti reduci del Vietnam raccontati dal cinema e dalla letteratura americane.
Noi non sappiamo cosa ne pensi la donna che ha agganciato al bar: dopotutto, potrebbe essere anche lei un personaggio partorito dalla fantasia solitaria dell’uomo con la complicità dell’alcol. Sappiamo che la mente dell’uomo è piena di fantasmi e di dolore e anche di vergogna, la vergogna di non avere saputo ribellarsi prima, per paura della prigione, di non rivedere la propria casa.
Se si deve trovare un difetto, in ciò che racconta, è forse solo l’eccessiva insistenza con cui evoca triangolini e cosce aperte, ossessioni di ogni soldato al fronte, probabilmente.
Veniamo condotti nelle circonlocuzioni di quella mente passo dopo passo, lungo tutta una notte interminabile, un po’ scorticati dalle parole che ne sgorgano, perché sappiamo che dietro all’invenzione letteraria c’è una vita vissuta, una guerra combattuta, che il mondo, a partire dall’Europa, ha finto di ignorare per troppo tempo, fin quando, nel 1974, la Rivoluzione dei Garofani, partita proprio dai settori progressisti delle forze armate portoghesi, ha posto fine alla dittatura (in Angola, invece, la conquista dell’indipendenza ha coinciso con l’inizio di una lunga guerra civile, alimentata dall’esterno – si era ancora in piena Guerra fredda – e terminata solo nel 2002).
Ricordo di avere letto da qualche parte un’intervista a Salazar, realizzata da qualche giornalista a cui era simpatico, forse Montanelli (sì, a uno stronzo come Montanelli sarebbe potuto piacere senz’altro uno come Salazar). Ad un certo punto il giornalista chiede al dittatore: “Ma perché combatte queste guerre coloniali, quando ormai tutte le altre colonie europee in Africa hanno riacquistato l’indipendenza?”. Salazar risponde quello che ci si può aspettare da un decrepito nazionalista in avanzato stadio di decomposizione senile (morirà nel 1970, la dittatura gli sopravviverà per altri 4 anni), risponde che senza le colonie, senza quel che resta dell’Impero lusitano, il Portogallo diventerebbe una mera appendice della Spagna.
La cosa paradossale è che oggi il Portogallo è un paese con una spiccata identità, che nessuno, proprio nessuno, si sogna di confondere con la Spagna. Mentre delle sue ex-colonie non si ricorda più nessuno (e questa è solo una piccola-grande tragedia del Secolo breve, considerato che nelle guerre coloniali sono morti oltre 9.000 giovani portoghesi, assieme naturalmente agli africani, circa 50.000 solo in Angola).
Antunes, più volte in odore di Nobel per la letteratura, dopo la fine della guerra ha anche lavorato come psichiatra e ha pubblicato il suo primo romanzo all’età di 36 anni. In Italia In culo al mondo, uscito inizialmente per Einaudi, nella traduzione di Maria José de Lancastre, già moglie di Tabucchi, è stato poi ripubblicato da Feltrinelli, editore che ha mandato alle stampe diversi altri titoli dell’autore, ultimo, nel 2013, Arcipelago dell’insonnia.
Antònio Lobo Antunes, In culo al mondo, Einaudi, 1996 (ultima edizione: Feltrinelli, 2009)
In America: South of Nowhere, Random House, 1983