Quest’estate mi sto dedicando alla lettura (o rilettura) di qualche classico che avevo accantonato, e parimenti di alcuni successi editoriali recenti che avevo messo in stand by. Perciò, per alcune settimane, niente novità: del resto, questa rubrica non gioca di sponda con le case editrici e non ha come scopo quello di “spingere” qualche nuovo best seller.
Partiamo, o meglio ripartiamo, da un classico recente, se mi passate l’ossimoro: Il senso di una fine, di Julian Barnes, titolo del 2011, pubblicato in Italia da Einaudi per la traduzione di Susanna Basso e ora disponibile nei Supercoralli. Perché “classico”? Perché è un romanzo che ha collezionato, alla sua uscita, lodi sperticate, oltre che premi importanti (fra cui il Man Booker Prize, il più importante d’Inghilterra). Antonio D’Orrico, riportato diligentemente nella quarta dell’edizione italiana, lo ha definito ad esempio “uno di quei romanzi che nascono già eterni”. Ma anche altri critici solitamente severi come Goffredo Fofi hanno speso per il libro parole più che buone, suggerendo che registi del calibro di Joseph Losey, se fossero ancora vivi, ne avrebbero tratto un film splendido.

Julian Barnes
Quando il sottoscritto l’ha preso in mano – il libro lo tentava da mesi, con quella splendida foto di copertina, raffigurante il Millennium Bridge di Londra, con la cupola della cattedrale di St. Paul’s sullo sfondo – ha avuto in effetti la sensazione di stare per conoscere un libro importante. Uno di quei romanzi come, non so, L’insostenibile leggerezza dell’essere, o Ferdydurke, o La donna giusta, che ti lasciano una cicatrice profonda, e non importa quando sono stati scritti, o quando li hai scoperti, parlano a te, direttamente (e a milioni di altri lettori, ovvio), sono stati scritti per te. Era una sensazione e al tempo stesso anche una speranza.
Bene, ho continuato a coltivare questa speranza per molte pagine. E ho letteralmente divorato molte pagine. Se sia andata frustrata o meno, lo leggerete in fondo a questa recensione.
Dunque: l’inizio è dedicato al tempo che passa, alla nostra percezione del tempo. C’è tema migliore, più letterario? Si annunciava un romanzo-saggio, reso più coinvolgente dalla narrazione in prima persona.
Nella prima parte, abbiamo l’universo-mondo di un college inglese, negli anni ’60. Ambiente borghese ed esclusivamente maschile. L’’amicizia fra tre ragazzi un po’ saccenti e un po’ arrapati viene turbata dall’arrivo di un quarto personaggio, Adrian, più brillante e introverso di loro. “Noi prendevamo tutto alla leggera – dice di lui il protagonista, Tony Webster – tranne le poche volte che decidevamo di prendere una cosa sul serio. Lui prendeva tutto sul serio, tranne le poche volte che decideva di prendere una cosa alla leggera”.
La storia scorre fra osservazioni puntuali sulla natura della giovinezza, della storia e dell’esistenza umana in genere. I quattro amici terminano il college, scelgono strade (universitarie o lavorative) diverse, e si promettono di non perdersi di vista, as usual.
Ad un certo punto, nella vita di Tony compare una ragazza, Veronica. Acida (“misteriosa”, la definisce lui), snob e sessualmente poco generosa. Sono gli anni ’60, quelli della rivoluzione sessuale, ma, ci insegna l’autore, non dappertutto e non per tutti (quanta verità in questa affermazione).
Tony viene invitato a casa di lei, per essere strapazzato dai suoi genitori – in particolare dal padre e dal fratello – ancora più acidi e snob, e con la parziale eccezione della madre, che lo invita un po’ elusivamente a tener testa alla figlia.
Ma la relazione non va come dovrebbe. Veronica dà a Tony il benservito, salvo tornare un’ultima volta per concedersi finalmente a lui – esperienza che lo convince a “tagliare” una volta per tutte – e qualche tempo dopo si mette con Adrian, il quale, da perfetto gentleman, chiede all’amico il suo benestare per “procedere”. Tony risponde con una lettera crudele e infantile come lo si può essere quando si è molto, molto arrabbiati con l’amore, ma il contenuto della lettera il lettore lo scoprirà solo più avanti. Questa parte del romanzo si conclude con un inaspettato suicidio: di Adrian. “Era troppo intelligente – commenta la madre di Tony – . Chi è troppo intelligente riesce a convincersi di qualunque cosa. Perde di vista il buon senso”. Apparentemente, il suo è stato un suicidio da perfetto esistenzialista, quindi senza un motivo preciso, se non – si fa per dire – il male di vivere. Adrian, del resto, per come lo abbiamo conosciuto, era stato un attento lettore di Camus (come il sottoscritto e come una moltitudine di giovani uomini, negli anni tumultuosi e frustranti della loro “formazione”, altra parola da prendere con le pinze).
Segue un lungo salto temporale. Ritroviamo Tony nell’ultima parte della sua vita (sul dorso del terzo cavallo, per dirla con Erri De Luca). Nel frattempo si è sposato, ha divorziato, ha avuto una figlia, ha portato a termine una onesta carriera di funzionario, è andato in pensione. Fa un po’ di volontariato e vede di tanto in tanto la ex-moglie, che a differenza di Veronica è una donna equilibrata e piuttosto paziente (anche se ad un certo punto Tony le staffe gliele fa perdere anche a lei). Un’esistenza pacifica, insomma, la sua, quella a cui in fondo il Tony studente aveva dichiarato di aspirare, dopo aver coltivato qualche sogno superomistico. La vita compiuta e senza scosse di uno dei tanti uomini senza qualità, senza slanci eccessivi ma anche senza troppi scheletri nell’armadio. Improvvisamente, questa vita giunta quasi all’epilogo viene ribaltata da un lascito, della madre di Veronica: 500 sterline (somma che in sé non dice nulla) e il diario di Adrian, di cui però Tony non riesce ad entrare in possesso.
Non diciamo altro, qui, anche se il problema spoil, con un libro non nuovissimo, non si dovrebbe porre neppure. Diciamo invece ciò che conta davvero. Cosa c’è che piace tanto, in questo romanzo? Due cose: le osservazioni libere, le digressioni “filosofiche”, di cui abbiamo in parte già detto. E, soprattutto, il vecchio trucco: ovvero che tiene sulla corda, fino alla fine. Piace perché ad un certo punto diventa una sorta di giallo, e senti il bisogno quasi fisico di “arrivare in fondo”. Si tratta di mestiere, indubbiamente. Pure, non è da tutti.
Cosa c’è invece che non funziona per nulla? Che il mistero, una svolta svelato, non è una bomba, è un petardo bagnato. E qui, sì, il lettore si sente un po’ preso in giro, come ha scritto a suo tempo abbastanza giustamente Christian Raimo sul blog di Minimum Fax “Minima & Moralia”.
Allora intendiamoci: io personalmente non stravedo per il plot, e non ho nulla contro i romanzi che sono tali grazie ad puro un pretesto narrativo, e altrimenti potrebbero essere un saggio, un diario, una lunga lettera. Sopporto volentieri che una trama si riveli debole o forzata, se è il prezzo da pagare per qualche riflessione, qualche monologo interiore, qualche dialogo che ti faccia esclamare: “E’ proprio così, la vita è proprio così, ben detto!”. Ma quando un autore punta sfacciatamente sulla suspense, e di conseguenza sul finale ad effetto, beh, il finale deve essere tale.
Il senso di una fine, in fondo al romanzo di Barnes, purtroppo non c’è. O meglio, c’è un mistero svelato, ma è così estraneo al resto della narrazione (e all’io narrante, il povero Tony Webster) da non svelare nulla.
Leggete questo libro di Julian Barnes (inglese, classe 1946, ex amico di Martin Amis, con cui ruppe quando Amis abbandonò la sua agente, Pat Kavanagh, moglie di Barnes, per più sostanziosi contratti, un gesto che all’epoca nel mondo letterario fece un po’ di scalpore); leggetelo, se non lo avete ancora fatto, per le sue riflessioni sul tempo che passa, sulla natura ambigua del ricordo, sulle occasioni mancate, sul come si invecchia dignitosamente e senza divertirsi granché. Ma quando arrivate in fondo…no, arrivateci da soli. Magari a voi farà un’impressione diversa.
Julian Barnes, Il senso di una fine, Einaudi, pp. 150