Attraverso l'incontro con alcuni fra i più grandi fotografi del nostro tempo – e soprattutto attraverso gli scatti che li hanno resi celebri e ne hanno determinato lo stile e lo sguardo – Mario Calabresi racconta i momenti in cui la storia si è fermata in una fotografia. “Ci sono fatti, pezzi di storia, che esistono solo perché c'è una fotografia che li racconta” – scrive Calabresi. “Un'immagine talmente forte da riuscire a muovere sensibilità e coscienze pubbliche” prosegue. E il pensiero va subito a una ragazzina pakistana con la testa velata di rosso e gli occhi chiari spalancati, fissi in macchina, ai carri armati in bianco e nero per le strade di Praga, a un bambino di colore che ridendo si punta una pistola alla testa, allo sguardo duro di Khomeini che scende dall'aereo a Teheran nel 1979, alle donne e ai bambini nel deserto del Sahel battuto dal vento.
Partendo da alcune di queste immagini, che hanno determinato l'immaginario collettivo, Mario Calabresi va a cercarne gli autori, per farsi raccontare gli attimi prima e dopo quegli scatti, le circostanze e gli stati d'animo in cui quelle fotografie sono state fatte, per farsi raccontare “il momento in cui hanno incontrato la Storia e hanno saputo riconoscerla.”
E in effetti la Storia ci parla attraverso queste fotografie, perché Mario Calabresi è uno straordinario giornalista, ma al tempo stesso A occhi aperti è prima di tutto un libro di fotografia, o meglio, di giornalismo fotografico, di indagine e racconto, un affascinante viaggio nella storia della fotografia degli ultimi cinquant'anni, e un viaggio nel mondo.
Dieci fotografi, incontrati da Calabresi in diversi angoli nel mondo, nel privato delle loro case e in occasioni ufficiali, ricordano e raccontano.
Steve McCurry racconta con le sue immagini levigate e armoniose le alluvioni dell'India e del Bangladesh, in cui era immerso nell'acqua fino alla vita, perché non si poteva raccontare quel mondo restando a distanza, all'asciutto. I suoi servizi per il National Geographic che lo hanno reso famoso eppure di una fama che non ha mai logorato il suo sguardo e il suo lavoro, rimasti intatti.
Joseph Koudelka ricorda la vita e i volti degli zingari in Boemia e in Slovacchia da lui fotografati, le immagini in bianco e nero della Primavera di Praga in cui era stato fra i primi a scendere per strada e scattare, documentare, immagini che hanno portato la storia sui giornali e nelle case di tutto il mondo.
Don McCullin invece più di altri ha unito nelle sue immagini (e nel suo stesso sguardo) lavoro e vita personale: immagini drammatiche, spoglie di artificio per andare dritte all'essenza del dramma, del dolore, della miseria: dal pianto di una donna nella Cipro dei primi anni Sessanta alla guerra del Vietnam, alla miseria di Bradford, dove negli anni è più volte tornato, per raccontare la povertà economica e morale del proprio paese.
Ma non ci sono solo le immagini che hanno raccontato guerre, tensioni, tragedie dell'uomo o della natura. Mario Calabresi incontra anche quei fotografi che, con piccoli dettagli e immagini 'minime' hanno ritratto i cambiamenti sociali del loro paese e del loro tempo. Paul Fusco ritrae l'America ingenua e sconvolta, le facce di donne, uomini e bambini allineati per migliaia di chilometri ai bordi delle rotaie mentre passa il feretro di Bob Kennedy.
E ancora Alex Webb, che racconta colori e contrasti, tra la bellezza dell'immagine colta in un attimo di grazia e la drammaticità del soggetto, come l'arresto di un uomo che cerca di attraversare il confine tra Messico e Stati Uniti, in mezzo a un campo di fiori gialli, o ferma in una fotografia due bambini neri che giocano sotto a una fontana d'acqua che crea un arcobaleno sopra di loro, a Erie, una delle città più depresse della Pennsylvania, in quella Rust Belt che ha messo in ginocchio stati e città con la crisi dell'acciaio e dell'industria automobilistica. E poi c'è Gabriele Basilico, il fotografo degli spazi, siano questi spazi architettonici o industriali, o siano gli spazi di un'inquadratura. Fotografo delle periferie milanesi, delle vedute dei porti, della Beirut distrutta dalla guerra, Calabresi è riuscito a incontrare Basilico appena un mese prima che morisse: “Sentiva l'urgenza di raccontare, di spiegare per bene ogni cosa… Sentiva il tempo sfuggire, ma non era in vena di bilanci amari, la sua passione era intatta e feconda”.
E ancora Abbas, con il racconto appassionato e rigoroso del suo paese, l'Iran della fine degli scià e della rivoluzione, del lusso e dei linciaggi, dei pugni alzati e delle donne vestite di nero; Paolo Pellegrin, incontrato a Brooklyn, nella Williamsburg di ebrei chassidici deserta il sabato pomeriggio, nei magazzini affittati dalla Magnum che si affacciano sull'East River. E per parlare di lui e delle sue fotografie Calabresi cita una frase di Robert Capa: “Se le tue foto non sono abbastanza buone significa che non sei abbastanza vicino”. Kosovo, Iraq, Palestina: Pellegrin era vicino, vicinissimo, alle donne e agli uomini che ha fotografato. Sono i dettagli delle mani, degli sguardi, a raccontare le tragedie e ad aver fatto vincere a Pellegrin i premi più importanti del fotogiornalismo mondiale.
Quindi Sebastiao Salgado, incontrato nel suo studio di Parigi, le sue foto meravigliose degli elefanti africani e dei pinguini che fanno la fila per tuffarsi in mare, ma anche quelle drammatiche del Sahel, l'archeologia industriale della Polonia e del Brasile, eppure è la serenità la cifra principale di questo straordinario fotografo. Opposta e complementare all'idea di Capa, Salgado ci dice che “se si guarda il mondo da lontano si ha una sensazione di pacificazione”.
Infine Elliott Erwitt, incontrato non per parlare dei suoi famosi cani che saltano, fermati dallo scatto a mezz'aria, non il bacio immortalato dallo specchietto retrovisore di una macchina negli anni Cinquanta, bensì delle lacrime private, dietro il velo, di Jacqueline Kennedy, di una reginetta di bellezza bambina, bionda e sorridente nel suo vestito di raso e camuffi bianchi mentre appena dietro una bambina di colore se ne sta in disparte, due codine sulla testa e un sacchetto della spesa appoggiato a terra. E ancora le centinaia di smartphone alzati sopra la testa a fotografare Barack e Michelle Obama, al ballo inaugurale della Presidenza: una fotografia in cui tutti fotografano. Quest'immagine in particolare spinge Calabresi a chiedere a Erwitt il senso di essere fotografi oggi, in un'era in cui tutti fotografano. Alzandosi in piedi e appoggiandosi a quel bastone con trombetta che per tanti anni era servito a richiamare l'attenzione di qualcuno nell'attimo prima di scattare una foto (quel bastone che forse ora è una necessità, ma forse è ancora un vezzo d'artista ), Erwitt si incammina verso l'uscita con questa frase: “Tutti possono avere una matita e un pezzo di carta, ma pochi sono poeti”. E questo è forse il senso profondo di tutto il libro, che vale naturalmente per i grandi fotografi incontrati da Calabresi ma vale anche per l'autore stesso: tutti possono scrivere, ma non tutti sono dei grandi giornalisti, perché è l'attenzione a tutto ciò che di umano, nel bene e nel male, c'è dentro e dietro a una fotografia a fare di A occhi aperti un piccolo gioiello, e di Mario Calabresi uno dei giornalisti più sensibili e profondi di questi anni.