Francesco Guccini è un nostalgico. È anche un furbacchione, probabilmente, a dare alle stampe certi libri, ma rimaniamo alla nostalgia, che è caratteristica più interessante. Chiariamoci subito: non c’è niente di male nella nostalgia. Un tempo si sarebbe detto che i nostalgici sono tradizionalisti, quindi reazionari, quindi di destra. E Guccini, uno dei più importanti cantautori di sinistra degli ultimi 40 anni di italica storia della canzone, oltre che apprezzato scrittore, si sarebbe offeso. Ma ormai l’accoppiata tradizionalismo-conservazione (e quindi, destra) non è più così automatica. Se lo fosse, sarebbe vero anche il contrario, cioè che i modernisti, i futuristi, coloro insomma che inseguono ciò che è nuovo, innovativo, ciò che cambia e rompe con le tradizioni, sono automaticamente progressisti e di sinistra. Non è così, lo sappiamo: si direbbe anzi che Guccini oggi sia in buona compagnia. Ci sono a sinistra molti difensori delle tradizioni (il cibo tradizionale, le buone usanze di un tempo, le culture regionali); in fin dei conti la critica alla globalizzazione parte da qui, oltre che dalla presa di coscienza che il “sol dell’avvenire” era fuffa. Per non parlare di Pasolini, il padre di tutti i tradizionalisti di sinistra, attirato da ciò che, ai suoi occhi, rappresentava l’autentico, il popolare, il pre-moderno, il verace (“io rimpiango infatti quel mondo contadino pre-industriale e quel mondo sottoproletario sopravvissuto in Italia fino a pochissimi anni fa…”).
Per contro ci sono, e ci sono sempre stati, a destra, accanto alla folta e maggioritaria schiera dei conservatori, i cultori della modernità: in Italia i Futuristi, l’esempio più fulgido in campo artistico, erano politicamente a destra e auspicavano una radicale rottura con il passato, estetica, ma anche di altro genere, e fino a celebrare quell’immenso carnaio che fu la Prima guerra mondiale. Per non dire dei neocon americani: conservatori per definizione, spregiudicati fautori del nuovo nei fatti, se per nuovo intendiamo nuove guerre e nuovi spericolati business finanziari.
Chiudiamo questa lunga divagazione e torniamo all’ultimo libro di Guccini, libro che ha scalato in fretta le classifiche di vendita italiane. È un libro facile, leggero, dolce come… il buon miele di una volta? Diciamolo, via: è un libro un po’ deludente. Ma lo salva l’ironia, quella a cui il cantautore ci ha sempre abituati, sul palco prima che nelle pagine di un libro. Il titolo è Nuovo dizionario delle cose perdute, l’editore Mondadori. “Nuovo” perché Guccini ha già pubblicato, due anni fa, un libro così, diviso in tanti capitoletti e dedicato alle cose, appunto, scomparse: non solo oggetti, anche “usi e costumi”. Qui si parla di pezze al culo (la prima voce del dizionario) e di vespasiani (lo sanno cosa sono i vespasiani in America?), delle cartoline e della carta carbone, dell’idrolitina e delle cabine telefoniche, dei deflettori e delle osterie, ovviamente “di una volta”, non quelle fighette di adesso, ma anche di comportamenti come fare l’autostop, tifare Coppi o Bartali, scrivere le letterine di Natale (usanza che in verità si è conservata anche oggi).
Spira su tutto questo la bonomia gucciniana, presenza discreta nella produzione cantautorale, quando l’altra voce della sua ispirazione, il vero, autentico male di vivere delle canzoni indiscutibilmente più belle, veniva messa temporaneamente a riposo. Un’ironia di grana grossa, paesana, piaciona. A ben guardare, Guccini era un nostalgico anche da giovane: il suo disco più famoso l’aveva intitolato Radici, e la storia più rivoluzionaria che aveva cantato, quella de La locomotiva , non solo era ambientata “nei primi anni del secolo”, ma aveva come bersaglio un simbolo della modernità, un treno (vabbè, treno “di lusso, lontana destinazione”). In quanto all’America, se avesse dovuto emigrarci, come suo nonno, avrebbe preso il tram.
La cosa più divertente è che scorrendo queste pagine si scopre che Guccini considera diavolerie moderne cose che sono ormai entrare a far parte del nostro bagaglio da una vita, come i piccoli doni che a scuola si fanno confezionare agli alunni sotto le feste, da portare a casa per regalarli ai genitori, o i biscotti del Mulino Bianco (cioè i prodotti dell’industria dolciaria contemporanea, che hanno soppiantato le merende caserecce dell’infanzia gucciniana).
Detto questo, Guccini è uno che lo si ama e lo si amerà sempre. Io l’ho visto in concerto una decina di volte, e in un paio di occasioni ricordo che mi recai nel luogo dove suonava proprio con quell’autostop oggi quasi del tutto scomparso dalle strade d’Europa. Però, no, non sono un nostalgico. Per quanto volgare sia il mondo globalizzato, cerco di resistere alla tentazione di rimpiangere il buon tempo che fu. E non penso che Pasolini avesse ragione.
Francesco Guccini, Dizionario delle cose perdute, Mondadori, 2013.