Paolo Macry, storico, editorialista del Corriere della Sera e politologo. È tra i più attenti analisti della complessa situazione storico politica del Mezzogiorno. Unità a Mezzogiorno. Come l'Italia ha messo assieme i pezzi (Il Mulino, 2012) è il suo ultimo lavoro storico. Una analisi impietosa sulle élite politiche meridionali. Abbiamo posto alcune domande all’autore alla luce del suo ultimo lavoro storiografico.
Professor Macry, Lei conclude il suo lavoro con una affermazione forte: "Qualunque sia stato storicamente il ruolo dei governi centrali, molta parte del problema va addebitata alle classi dirigenti e alle comunità del Mezzogiorno". Insomma, tutti colpevoli: eletti ed elettori. Non le sembra un giudizio duro a fronte di prassi economiche e politiche che riguardavano l'intero territorio nazionale?
Apparentemente sì. Ma a me sembra di arrivare al giudizio attraverso un ragionamento e soprattutto attraverso una serie di evidenze, che poi, messe assieme, costituiscono il cuore della storia italiana. Credo che le classi dirigenti meridionali, dal secondo Ottocento a tempi a noi molto vicini, si siano avvantaggiate di una distorsione del mercato elettorale dovuta, a sua volta, alla pervasività che, soprattutto nel Mezzogiorno, ha avuto storicamente l'intermediazione politica. Sono state selezionate dagli elettori, in altre parole, in base alla loro capacità di intercettare risorse al centro e di trasferirle in periferia, ovvero nei loro collegi elettorali. Il che, come si vede, coinvolge le élite, ma coinvolge anche chi le ha supportate con il voto. Ma naturalmente questo non significa ignorare che un simile scambio centro-periferia si collocava all'interno di politiche nazionali, le quali sono state per oltre un secolo portate avanti da élite prevalentemente centro-settentrionali e con interessi prevalentemente centro-settentrionali.
Lei cita spesso il termine diversità (quasi ad elevarla a categoria storica per lo studio delle nazione italiana). La diversità, Lei afferma, affonda le radici nel tempo lungo. Dunque i problemi socio-economici del Sud (la diversità) sorgono attraverso la mancanza di una élite liberale sia attraverso un patto (politico) centro periferia che in cambio di consensi (voti) elettorali elargiva cospicui finanziamenti pubblici finendo per "drogare" sia il mercato del lavoro che il sistema economico meridionale. Non Le pare invece che il Sud proprio attraverso questo sistema abbia potuto raggiungere una crescita economica (in parte sociale) se vogliamo sorprendente se vista dall'Unità d'Italia ad oggi?
Lo scambio centro-periferia, a mio parere, ha ingessato il processo di selezione delle classi dirigenti meridionali. Non di meno, l'inserimento del Mezzogiorno nel quadro dello stato-nazione, a partire dal 1861, ha offerto al Sud peninsulare una quantità di vantaggi e di opportunità: di tipo politico e istituzionale, civile e sociale, e anche economico. Sebbene il divario tra Nord e Sud non si sia mai colmato, sarebbe difficile negare che anche il Mezzogiorno, come il resto del paese, ha assistito ad una crescita complessiva di dimensioni assai rilevanti. Resta da chiedersi se quel rapporto centro- periferia, con i suoi caratteri pervasivamente politici, abbia costituito un vantaggio o uno svantaggio. Se si guardano le cose in una prospettiva lunga, propenderei per la seconda ipotesi. Per dirla con uno slogan, il Mezzogiorno ha registrato in 150 anni un notevole sviluppo delle sue condizioni materiali, ma è cresciuto assai meno, in termini assoluti e relativamente al resto d'Italia e d'Europa, per quel che riguarda il cosiddetto capitale sociale. E spesso è stato un protagonista passivo della storia politica del paese. Non ha determinato le strategie dei ceti di governo. Le ha subite.
Lei afferma: "La gestione in chiave politico-elettoralistica delle risorse pubbliche ha finito per colpire al cuore la produttività del Paese e dunque la sua collocazione nel contesto internazionale". Ora questo trend politico economico, secondo Lei, può essere invertito? E come?
È probabile che oggi, giunti ad un livello assai grave di crisi strutturale del paese, il Mezzogiorno venga costretto a rivedere le sue condizioni materiali di vita. Del resto, negli ultimi anni, hanno avuto termine le politiche speciali e si sono ridotti in modo vistoso i trasferimenti ordinari da Roma. La questione meridionale, come suol dirsi, è stata sostituita dalla questione settentrionale. Si tratta di processi che, al momento, la società sembra in grado di assorbire. Dopotutto, il tasso di conflittualità che si registra in Italia è assai basso. Ma certo la svolta è epocale. È la prima volta che il Mezzogiorno viene posto di fronte alla necessità di adeguare costi ed efficienza delle istituzioni pubbliche e delle amministrazioni agli standard nazionali. Non sarà un processo facile, né breve. Potrebbe però essere una prospettiva, per una volta, non sterile. Liberata dalla campana di vetro dell'assistenzialismo (e di una conseguente, radicale inefficienza della macchina pubblica locale), non va escluso che il Mezzogiorno possa mettere a frutto, in un clima finalmente meritocratico, le sue risorse. Risorse intellettuali, risorse ambientali e artistiche, risorse commerciali, risorse agricole, risorse manifatturiere.
Veniamo ora ai movimenti meridionalisti e filoborbonici. Proclamano un sacco del Sud iniziato con l'Unità e passato per le stragi di Stato (Pontelandolfo, Casalduni). Insomma sacco di Stato e guerra civile sedata con misure draconiane. Eppure il Mezzogiorno non è diventata l'Irlanda del Nord per il Regno Unito o i Paesi Baschi per la Spagna, complice anche una storiografia che ha glissato su tali fenomeni (Barberis). Questi movimenti, di cui alcuni si rifanno all'Insorgenza civile, hanno futuro o sono solo momentanee manifestazioni di un quadro sociale italiano di scollamento politico e mancanza di leadership politica nazionale? Qual è la sua analisi su questi fenomeni storico sociali?
In verità, non attribuirei grande importanza ai movimenti filoborbonici, né a quel che resta della stessa grande tradizione del meridionalismo. Ripeto, mi sembra assai più attuale la cosiddetta "questione settentrionale". Nè mi sembrano credibili le istanze al decentramento e tanto meno certi umori indipendentistici, che talvolta si sentono nell'opinione pubblica meridionale. Il Sud è sempre stato il cuore della stabilità politica italiana, dal tardo Ottocento ai giorni nostri, e, rispetto alle tensioni emerse nel resto del paese, ha sempre assunto un atteggiamento nazionale e "unitario". Con l'eccezione della Sicilia, semmai. Del resto, la dipendenza delle regioni meridionali dai trasferimenti dal centro è stato un motivo non piccolo, sebbene non l'unico, di questa fedeltà alla patria italiana.