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July 4, 2013
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July 4, 2013
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Quando gli zombi diventano metafora

Marco PontonibyMarco Pontoni
Time: 4 mins read

Gli zombi sono sempre stati una potente metafora. Nei fumetti di Zagor e Capitan Miki erano la cattiva coscienza del colonialismo, lavoratori supercheap, morti richiamati in vita per coltivare piantagioni di cotone a costo zero (e occasionalmente, commettere qualche delitto su commissione). Nei film di Romero – che rappresenta per gli zombi ciò che Asimov ha rappresentato per i robot – erano la spia del disagio delle società borghesi e la quintessenza dell'alienazione consumistica, con il loro tornare ossessivamente sul luogo dello shopping per eccellenza, il centro commerciale.

Nel libro di Max Brooks World War Z, pubblicato nel 2006 (in Italia nel 2007), da cui Marc Forster ha tratto il film-tormentone di questa estate 2013, gli zombi sono la materializzazione delle epidemie degli ultimi 30-40 anni, dall'Aids alla Sars. Ma anche molte altre cose.

Del film con protagonista Brad Pitt sapete ormai tutto. Del libro (nella foto qui a lato) del figlio di Mel Brooks e Anne Bancroft, scrittore e attore, che ha lavorato anche ai testi del Saturday Night Live, vincendo un Emmy Awards nel 2002, forse un po' meno. Diciamo subito che si tratta di un'opera deliziosa, molto lontana dalla produzione cinematografica, che ne enfatizza soprattutto la dimensione epica (pure presente anche nel romanzo).

In questi giorni i commenti hanno enfatizzato una delle prime cose che saltano all'occhio dello spettatore: il fatto che gli zombi di Forster, contrariamente a quelli "canonici" di Romero (e a quelli di Brooks) si muovano velocemente. Ed è certo una scelta stilistica di non poco conto, peraltro onestamente piuttosto indovinata, ai fini di un film d'azione. Ben più radicale è stata però un'altra idea, quella di ricondurre tutta la vicenda alla figura dell'eroe impersonato da Pitt, una nuova versione del family man che si presta, giocoforza, a salvare il mondo. In ciò la distanza del film rispetto al romanzo non poteva farsi più marcata. Quello di Brooks è, infatti, in primo luogo un romanzo corale, costruito come una raccolta di testimonianze sulla guerra degli zombi redatta a guerra finita. L'impostazione, simile a quella di un romanzo epistolare (un genere spesso frequentato dalla letteratura gotica e horror, pensiamo al Dracula di Bram Stocker) produce nel lettore un affascinante effetto-verità. La guerra degli zombi, insomma, viene raccontata, dagli antefatti all'epilogo (la liberazione di New York, naturalmente), da tanti testimoni diversi, incontrati in ogni angolo del pianeta. Dalle loro voci, raccolte per un rapporto delle Nazioni Unite, emergono tutte le componenti sociali e politiche del romanzo. Vediamone alcune.

L'epidemia degli zombi, innanzitutto, nasce in Cina, e si diffonde nel globo seguendo le tante vie, legali e illegali, della globalizzazione: i vettori sono i migranti, gli eserciti impegnati nelle operazioni di peace keeping o gli organi usati per i trapianti clandestini. Analogamente a quanto è avvenuto per le presunte pandemie degli ultimi anni, all'inizio anche qui c'è chi cerca di specularci sopra con la diffusione di vaccini pressoché inutili. Al tempo stesso, tanto i governi quanto i singoli cittadini sottovalutano la portata della catastrofe, i primi imboscando i rapporti e realizzando atti di "distrazione di massa", i secondi abbrutendosi ancor più di prima con consumi, psicofarmaci e computer.

Quale lo stato che per primo reagisce? Israele, che innalza un nuovo muro, per proteggere parte del suo territorio dall'invasione dei morti viventi (ma "prendendo a bordo" anche dei recalcitranti palestinesi).

Chi ha il coraggio di formulare la strategia che porterà, infine, alla vittoria sugli zombi, pagando un costo altissimo? Uno degli ex-responsabili del sistema di apartheid in Sud Africa, il quale proporrà di abbandonare gran parte dei territori dei singoli paesi ai morti viventi e di racchiudere uno zoccolo duro di civiltà all'interno di enclaves più facilmente difendibili, entro le quali organizzare il contrattacco. Chi perderà la bussola al punto tale da usare l'atomica? Alcuni stati dell'area asiatica che va dall'Iran al Pakistan.

Detto così, il tutto suona un po' politicamente scorretto. Ma il libro inanella soprattutto una serie di storie e di situazioni affascinanti, che valorizzano davvero al massimo il potenziale metaforico racchiuso dagli zombi. Abbiamo la pattuglia dei super ricchi che si rifugia in una villa-fortezza di Long Island (similmente ai principi della Maschera della morte rossa di Poe), ma dando al proprio ritiro, attraverso il web, la massima visibilità possibile, come in un reality stile Grande Fratello. Abbiamo un otaku, uno dei tanti ragazzi giapponesi ossessionati dal pc, che segue su video il diffondersi dell'epidemia nel suo paese ma si accorge solo all'ultimo istante che gli zombi sono arrivati davanti alla porta di casa. Abbiamo le famiglie americane che partono per l'Alaska – il freddo arresta l'invasione – come se andassero a una scampagnata e che per sopravvivere alla fine si adegueranno alla dura legge del cannibalismo. Abbiamo l'ottusità dei vertici militari che cercano di distruggere gli zombi con armi estremamente sofisticate e l'umile eroismo del fante che alla fine risulterà risolutivo, visto che il nemico può essere eliminato solo sparandogli in testa.

Da un certo punto in poi il libro, più che a un horror, assomiglia in effetti ad un romanzo di guerra, uno dei tanti che l'America ha prodotto, sulla Guerra di Secessione piuttosto che sul Vietnam. Ma dalle pagine di Brooks emerge anche un'acuta sensibilità dell'autore per le differenze culturali, esemplificate dalle risposte che i diversi paesi daranno all'epidemia degli zombi: in America il patriottismo, in Russia il ritorno alle radici "mistiche" del Patriarcato, in Giappone lo zen e l'arte della spada e così via.

Curiosamente, invece, nel libro è appena accennata una delle situazioni risultate più efficaci nella versione cinematografica: la presenza di zombi in un aereo di linea. Anche, qui, di nuovo, possiamo vederci una metafora, se vogliamo; metafora a cui il pubblico americano, dopo l'11 settembre, non può che essere particolarmente sensibile.

 

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Marco Pontoni

Marco Pontoni

Sono nato in Sudtirolo 50 anni fa, terra di confine, un po' italiana e un po' tedesca. Faccio il giornalista e ho sempre avuto un feeling per la narrazione. Ho realizzato video e reportages sulla cooperazione allo sviluppo in varie parti del mondo. Finalista al Premio Calvino, ho pubblicato il romanzo Music Box e, con lo pesudonimo di Henry J. Ginsberg, la raccolta di racconti Vengo via con te, tradotta negli USA dalla Lighthouse di NYC con il titolo Run Away With Me. Ho da sempre una sconfinata passione per gli autori americani, Lou Reed, l'Africa, la fotografia, i viaggi e camminare.

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