Un direttore geniale, un musicologo tra i più fini, esperto di bel canto, è stato il più giovane critico musicale nella storia del New York Times. Will Crutchfield è direttore d'opera del Caramoor International Music Festival, in programma in questi giorni nella contea di Westchester, dove quest'anno ha deciso di portare la produzione verdiana degli anni francesi. La VOCE di New York lo ha intervistato per parlare di Verdi ma anche di opera contemporanea.
Verdi e l’Italia sono quasi sinonimi, sino a tal punto che Umberto Saba definiva il compositore “quasi troppo genitale per essere un artista”. Come mai allora per il suo bicentenario ha scelto il tema Verdi a Parigi ?
In primo luogo perché il pubblico ha bisogno di conoscere due capolavori verdiani con i loro veri testi. Capisco bene perché c’era la tradizione di fare I vespri siciliani e Don Carlo: le versioni originali non si sono mai stabilite nel repertorio francese, e le opere di conseguenza sono entrate nel repertorio mondiale grazie ad esecuzioni italiane, naturalmente in italiano. Ma è come se conoscessimo Le nozze di Figaro e Don Giovanni esclusivamente in tedesco. Va benissimo Die Hochzeit des Figaro a Berlino, vanno benissimo I vespri siciliani a Milano, ma presentare traduzioni sulla scena internazionale non ha senso.
Aggiungerei che Parigi era importantissima tanto per Verdi quanto per gli altri maestri del bel canto. Rossini, Bellini e Donizetti hanno concentrato l’ultima fase della loro attività teatrale a Parigi — e così farà lo stesso Verdi quando sovrintenderà le prove per Otello e Falstaff, in francese, nel 1894. Fu una capitale ricchissima con quattro o cinque teatri lirici in piena attività, dove un autore poteva guadagnare molto e anche approfittare di risorse non disponibili in Italia per quanto concerne regia, orchestra, coro, ecc.
E poi c'è l’aspetto personale: a Parigi il maestro abitò tranquillamente con la futura moglie Giuseppina Strepponi, relazione che per molti anni era troppo scandalosa per l’ambiente italiano.
Quando la Strepponi infatti si trasferì a Parigi, cantava musiche di Verdi, destando l’entusiasmo di Hector Berlioz per il calore della sua arte, “della grande scuola italiana”. Ma è altrettanto vero che a Parigi Verdi trovò interpreti ideali per la sua musica, no?
Che Verdi abbia trovato interpreti ideali a Parigi? Non direi tanto. Per quanto io sappia, l’unico cantante francese che abbia destato vero entusiasmo in Verdi è Victor Maurel [N.d.R che creò i ruoli di Iago e Falstaff]. Ma sicuramente esisteva una vocalità francese adatta al grand opéra, ai ruoli eroici, e il grammofono ne conserva le tracce nelle registrazioni di cantanti quali Pol Plançon, Léon Escalaïs, Félia Litvinne, Jean-Francois Delmas, e altri che hanno collaborato con Verdi in persona, come Meyrianne Héglon, Andre Gressé, lo stesso Maurel, Albert Saléza, Lise Landouzy e sette o otto altri…
Secondo molti melomani, tra il Don Carlo e il Don Carlos , i Vespri e le Vêpres , c’è poca differenza. È d’accordo?
Ritorno al tema di Mozart e delle sue opere in italiano. Una traduzione può essere buona o cattiva, ma i compositori scrivono le loro note per parole specifiche, e l’opera vera e propria non si conosce senza conoscere il testo originale. Cito uno tra tanti esempi, la fine del dialogo tra Filippo Secondo e il Grande Inquisitore nel quarto atto del Don Carlos. Il re vuole l’appoggio della Chiesa prima di affrontare una scelta tremenda, quella di condannare a morte il proprio figlio come ribelle. L’inquisitore glielo dà, e così è in grado di chiedere qualcosa da Filippo, cosa che lo colpisce nel suo punto debole. Chiede la condanna per eresia del consigliere intimo del sovrano, il Marchese di Posa.
Nel testo originale Filippo esprime il suo consenso così: "L’orgueil du roi fléchit devant l'orgueil du prêtre" (L’orgoglio del re s’inchina all’orgoglio del prete). Risposta dura, amara, ma decisa. Nella traduzione italiana dice invece “Dunque il trono piegar dovrà sempre all'altare!” Sembra una protesta. È debole. Non c’entra il “dover piegare”: Filippo ha fatto una scelta e avrebbe potuto non farla. Non si sa cosa sarebbe successo se Filippo avesse detto “Chiesa, va f…o”. È lui che decide di non fare la prova. Il testo originale definisce la situazione psicologica e politica, mentre la traduzione la indebolisce.
Un altro luogo comune: che la nostra epoca sia povera di grandi interpreti verdiani rispetto a cinquanta o sessant’anni fa. È d’accordo? (C’è pure chi sostiene che nel Novecento si cantasse tutto a mo’ di Mascagni, malgrado gli avvertimenti di Verdi: “Se nella mia musica non vi sono molti vocalizzi, non vi è per questo bisogno di mettersi le mani nei capelli, e smaniarsi come furibondi”.)
Purtroppo devo dichiararmi d’accordo, ma non mi sento per questo né pessimista né nostalgico. Sì, rispetto a cinquant’anni fa, e ancora di più rispetto a sessant’anni fa o cent’anni fa. Ma è naturale: il mondo va avanti e non si può pretendere che la gente mantenga lo stesso contatto con l’arte del secolo passato. E se hanno cantato “a mo’ di Mascagni” all’epoca di Mascagni, anche questo è naturale e non un vizio: all’epoca di Verdi, avranno cantato Rossini e Mozart “a mo’ di Verdi”.
Il problema dei nostri tempi ha due aspetti. Dopo Puccini, la tradizione lirica non ha generato nuove opere convincenti (che avrebbero legato il presente al passato in modo organico); e per giunta abbiamo la possibilità di paragonare cantanti attuali con quelli del passato, situazione “innaturale” rispetto all’epoca pre-edisoniana. Ci troviamo in uno stato di entropia, tra una tradizione moribonda (ma preziosa) e nuovi concetti interessanti (ma a volte freddi e privi di spontaneità).
L’orologio non va indietro, è inutile sperare di trovare un nuovo Caruso, un nuovo Ezio Pinza, una nuova Eugenia Burzio. Comunque c’è l’epigramma di Verdi: “Tornate all’antico e sarà un progresso”. Bisogna studiare e apprezzare il passato, non per rimetterlo in attualità (cosa impossibile) ma per trarne cose importanti, essenziali, che altrimenti sarebbero dimenticate nella formazione dei nostri cantanti lirici. Bisogna “tornare all’antico” non come modello ma come fonte d’ispirazione.
Philip Gossett e Andrew Porter parteciperanno a discussioni prima del Don Carlos del 20 luglio. Può presentare ai nostri lettori questi massimi esperti dell’opera italiana dell’Ottocento? Come hanno formato loro il Verdi del nostro millennio, tanto diverso da quello del centenario del 1913?
Maria Callas ha fatto capire in modo più convincente agli studiosi della musica che l’opera italiana dell’Ottocento meritava di essere presa sul serio. Andrew Porter, con le sue recensioni ed i suoi articoli accademici, ha spiegato, a parole, il perché andasse presa sul serio, mentre Philip Gossett, con le sue edizioni critiche, ha fatto capire a noi tutti cosa volesse dire nella pratica “prendere sul serio”. Senza di loro, il lavoro che facciamo oggi in questo campo non sarebbe stato possibile.