Ha ventisei anni, studia e dà ripetizioni di slavistica. Come tante coetanee, annota in una serie di quaderni qualunque cosa le capiti, soprattutto nella vita interiore e di relazione intima. E’ intensa e passionale, legge come una pazza in particolare Dostoevskij e Jung, adora Rilke. Un giorno, portata da un amico, incontra lo psicochirologo Julius Spier, che la prende in cura, l’aiuta a maturare, ne fa la preferita. Esther Hillesum, detta Etty, rivela un che di infantile nel modo di scrivere, un pensiero verginale sfrondato dalla malizia di molte coetanee, teso sugli obiettivi della conoscenza e del dono di sé. In quel ricercare e darsi rientrano le faccende di intimità amorosa che imbastisce, a cominciare da quella (seria) con Spier e (meno seria) con il padrone della casa dove vive, uomini avanti negli anni che le danno esperienza di vita e la dialettica che non trova nei coetanei, buoni solo per una serata da follia dei sensi.
Le novecento pagine di “Diario”, edito in Italia da Adelphi, sono la tavolozza sulla quale la ragazza dispiega gli ingredienti con i quali intende comporre la vita di adulta, anche quando sente crollare intorno il vivace mondo dell’infanzia e dell’adolescenza. Vive ad Amsterdam, Etty. E’ una bella città, con storia e monumenti, in particolare musei chiese e sinagoghe, che testimoniano ricchezza e cultura. Olanda significa mulini a vento, zoccoli in legno delle ragazze bionde con la cuffia da suore (ma la nostra non è bionda e non porta cuffie, e della suora non ha proprio niente), birra che sfida quella dei vicini belgi e tedeschi, dighe di terra sull’oceaano, Van Gogh e i fiamminghi, ottimo latte e grasse mucche nelle verdi campagne. Amsterdam può essere traversata a piedi satellando tra i canali, o, come fa spesso Etty, in bicicletta, almeno fino a quando le autorità non glielo proibiranno. La gente è civile e cortese, ma i tempi sono quelli che sono e, crescendo, la giovane donna avverte il male salirle intorno. E’ forte, grazie anche alla frequentazione di Spier, e nel diario annota che il male può “temprarla”, non “indurirla”.
E’ adorabile nella coerenza delle sue incoerenze. Soddisfa gli stimoli della carne (così li chiama) mentre si estenua forsennatamente con quelli dello spirito (si regala una biblioteca sterminata, anche perché da grande vuol essere scrittrice), fa coppia fissa con chi scrive che non sposerà perché avanti di quarant’anni, adora bere e mangiare cose buone le poche volte che le capita. Tutto dentro una fortissima spiritualità, un dialogo continuo con Dio, al quale dà del tu perché le ha donato “la più bella di tutte le vite possibili” colmandola di “doni e regali immeritati”. Schifa le mezze misure e quindi aborre ciò che taluni esponenti della sua minoranza religiosa – è ebrea – fanno contro i propri correligionari.
Quasi inaspettatamente, l’autrice di un diario sincero sino allo spasimo deve confrontarsi con la discriminazione ingiusta e letale. Si è promessa di non farsi cambiare, qualunque cosa fosse accaduta. E’ coerente sino in fondo. Non volendo cedere alla disumanità, pur potendolo evitare, accetta di seguire il destino di famiglia e amici, salendo su uno di quei treni di sola andata verso la Polonia, che diventeranno la vergogna eterna dell’Europa. Arriva ad Auschwitz con nello zaino bibbia e grammatica russa: lì muore nel novembre 1943. Prima di andare dove la chiamava il senso di appartenenza al suo popolo e la sua visione del mondo, aveva consegnato i quaderni, fermi al 13 ottobre 1942, all’amica Maria Tuinzing, pregandola di farli pubblicare, se non fosse tornata.
Questo articolo esce anche su Oggi7-America Oggi