Tra qualche giorno é il 4 di luglio, la festa dell'Indipendenza degli Stati Uniti d'America e un anniversario é anche un'occasione perfetta per tirare un po' di somme; per riflettere su ció che si é fatto e, soprattutto, sul futuro che ci attende.
Un autentico processo di autoriflessione tuttavia, sia esso a livello personale che a livello nazionale, richiede una certa dose di forza e carattere, due attributi che, per un certo periodo, non sono mancati alla giovane repubblica d'Oltreatlantico.
All'alba del Ventesimo Secolo e, soprattutto, dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale che ha segnato il “suicidio” dell'Europa, gli USA si sono ritrovati in una nuova posizione di leadership sullo scacchiere internazionale: potenza unica ed incontrastata ad eccezion fatta per l'antagonismo ideologico e militare con l'Unione Sovietica durante la Guerra Fredda.
Ma se quello trascorso si puó definire a ragione il secolo dell'America, quello attuale ci presenta una realtá molto diversa. Con la dissoluzione dell'Unione Sovietica, il bipolarsimo del passato si é trasformato in un “multipolarismo” ancora in fase di definizione caratterizzato da un nuovo processo di globalizzazione economica e l'emergenza di nuovi centri di potere, molti dei quali esterni al tradizionale asse atlantico euro-americano.
Sul futuro di questo nuovo assetto mondiale é stato scritto molto ma uno studioso decisamente ottimista in materia é Kishore Mahbubani, ex ambasciatore di Singapore all'ONU che, nel suo libro “The Great Convergence”, dichiara che, malgrado tutto, quello che stiamo attraversando é un periodo estremamente positivo se si guarda alla drastica diminuzione dei conflitti militari, alla crescita globale di un nuovo ceto medio e alla lenta ma inesorabile diminuzione della povertá nel mondo.
Ma, secondo Mahbubani, per mantenere la rotta attuale é fondamentale riconoscere la crescente interdipendenza tra le nazioni, una realtá che impone, a sua volta, una vera e propria ridefinizione del concetto di sovranitá nazionale attraverso il rafforzamento di quelle istituzioni preposte al coordinamento internazionale come le Nazioni Unite o la World Health Organization.
Il problema, secondo Mahbubani, é che invece molti stati occidentali, a cominciare dagli Stati Uniti, cercano ostinatamente di preservare la loro tradizionale posizione egemonica con un unilateralismo che tende a compromettere l'efficacia di queste stesse istituzioni internazionali. In altre parole, l'Occidente, con in testa gli Stati Uniti, hanno cercato per anni di indebolire queste organizzazioni per avanzare i loro interessi nazionali.
Ma la popolazione occidentale al momento equivale solo al 12% di quella mondiale e, con i mutamenti in atto e con un nuovo assetto globale caratterizzato dall'emergere di nuovi centri di potere, gli Stati Uniti avrebbero tutto l'interesse a rafforzare queste istituzioni internazionali piuttosto che a indebolirle.
La percezione che l'America ha di sé stessa é nata da quell'idea della “repubblica virtuosa”, figlia dell'Illuminismo settecentesco che ne ha costituito per decenni la forza e il carattere. Ma con l'avvento del Ventesimo Secolo, questa stessa “forza” si é trasformata sempre piú in un esercizio di “potere” e il potere tende a scoraggiare autentiche riflessioni culturali tramutandosi spesso in una forma di debolezza arrogante come dimostrato dalle disastrose avventure militari degli ultimi decenni in Vietnam e in Iraq.
L'idea che questo paese ha di sé stesso affonda le sue radici in quella convinzione semplicistica e un po' puerile di essere, ora e per sempre, “Number One”; in quel concetto di “eccezionalismo” che, nella sua accezione piú deteriore si tramuta nell'incapacitá di cambiare e di adattarsi a nuove circostanze, tipica di chi si considera, in un modo o nell'altro, “prescelto” e non vuole o non puó abdicare questo ruolo.
In un discorso tenuto a Yale nel 2003, l'ex presidente Bill Clinton dichiaró con molto franchezza, che se l'America crede di rimanere la nazione leader nel mondo a tempo indeterminato, puó tranquillamente continuare ad agire come ha sempre fatto. Ma se gli Stati Uniti dovessero confrontarsi in futuro con un nuovo assetto internazionale caratterizzato dall'affermazione di nuovi centri di potere, il tempo per prepararsi a questi cambiamenti é ora.
Ma un discorso di questo genere, che dimostra l'acume politico e la lungimiranza dell'ex presidente, sarebbe stato impensabile negli anni in cui lo stesso Clinton occupava la Casa Bianca cosí come é impensabile per ogni presidente in carica perché, nell'attuale clima politico americano, il solo accenno alla possibilitá della fine dell'egemonia USA equivale ad un vero e proprio suicidio politico.
La lungimiranza, cioé la capacitá di guardare al futuro cercando di prevederne i mutamenti e adattandosi ad essi, é inconcepibile viste le circostanze attuali della politica americana, prigioniera del ciclo elettorale e incapace di proiettare i suoi orizzonti oltre l'arco limitato dei quattro anni che delimitano le legislature.
Il mondo cambia ma l'America stenta ad adeguarsi perché il primo passo in questo processo é proprio il riconoscimento che questo cambiamento é effettivamente in atto.
Questo paese é ancora oberato dalla zavorra culturale del suo “eccezionalismo” e dalla convizione che sia il resto del mondo a doversi adattare al suo modello di svilluppo.
L'America, in altre parole, vive in una dimensione mitologica della storia, che limita la sua capacitá ad adattarsi a nuove circostanze.
Alla fine della Seconda Guerra Mondiale le potenze europee hanno compreso la necessitá di abbandonare il loro passato coloniale che, pur costituendo una situazione diversa, rappresenta comunque una disponibilitá ad abdicare; a chiudere volontariamente un ciclo storico per inizarne un altro. La domanda che l'America dovrebbe porsi alla vigilia del suo 237esimo compleanno é se sia arrivato il momento di uscire da questa visione mitologica del suo ruolo storico e guardare al futuro con gli occhi aperti, come si addice ad una grande nazione.