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June 8, 2013
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June 8, 2013
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Antonio Canepa: oscuro delitto di Stato

Valter VecelliobyValter Vecellio
Time: 5 mins read

Una delle più belle interviste che Leonardo Sciascia ha rilasciato è quella del 1978, pubblicata nel fascicolo di dicembre di “Mondoperaio”, il mensile del Partito Socialista diretto allora da Federico Coen.

      Domanda: tra il 25 luglio e la Liberazione, ma anche dopo, la Sicilia vive una fase dai tratti assolutamente suoi e specifici, rispetto a quelli del resto d’Italia, primo fra tutti l’ascesa e l’ampiezza del movimento separatista. Tu ne fosti contagiato?

    “Tu” è Leonardo Sciascia, intervistato da “Mondoperaio”, a tutto campo – e si spazia dalla politica alla letteratura, dal cinema al senso della vita. E non potevano mancare domande e risposte sulla tormentata stagione del separatismo siciliano. Sciascia risponde che no, non ne venne assolutamente contagiato: “Fui antiseparatista fin dal primo momento. A Racalmuto, con un gruppo d’amici, costituimmo addirittura un movimento antiseparatista, affittammo una sede, firmammo un manifesto. Nel separatismo mi sembrava evidente la prevalenza della destra agraria, della mafia, di tutto quel “sicilianismo” che io detestavo”.

    Evidentemente non del tutto convinto e soddisfatto, l’intervistatore insiste: “Eppure, anni più tardi, ti sei interessato al leader della sinistra separatista, il separatista Antonio Canepa. Volevi farlo diventare il personaggio di un tuo libro”.

    “Di Canepa”, risponde Sciascia, “mi aveva interessato la sua dimensione di sconfitto, che aveva in comune con altri miei personaggi. Studiandone più a fondo la vita e la presenza, il personaggio mi deluse. Mi parve carico di ambizioni e di mitomanie. Era giunto al punto di scrivere una sua autobiografia esaltatoria e di gabellarla come scritta da un francese”.

  . Canepa: chi era questo Carneade? A colmare la lacuna provvede Un'opera in due volumi: “Antonio Canepa, ultimo atto” e “L’uccisione di Antonio Canepa”, entrambi del giornalista e storico Salvatore Barbagallo (Bonanni editore). I due volumi tratteggiano – con documentazione inedita – il separatismo siciliano degli Anni ‘40 e la figura di Antonio Canepa, creatore e capo dell’EVIS (Esercito Volontario Indipendenza Siciliana). Gli avvenimenti che si verificarono negli anni che precedettero la Seconda Guerra Mondiale, il periodo dell’occupazione angloamericana della Sicilia, i personaggi che ebbero ruoli determinanti, sicuramente costituiscano la linea di confine tra il noto e l’ignoto di ciò che è accaduto nell’Isola alla vigilia della rinascita dell’Italia dalle macerie provocate dal conflitto bellico. Si descrivono retroscena politici e militari mai a sufficienza spiegati: dalla Resistenza siciliana al nazifascismo (assolutamente ignorata), al gioco tra servizi segreti, mafia, Chiesa per l’acquisizione del potere, alla trasformazione dei latifondisti in classe imprenditoriale dominante. Il libro si chiude con un pesante contradditorio sui documenti che “giustificano” la morte di Canepa e di altri due Evisti in un conflitto a fuoco alle porte di Randazzo, il 17 giugno 1945.

   La puntigliosa "anatomia" dei documenti sulla morte di Canepa è tra i principali pregi di questi volumi. Un personaggio contraddittorio, ambiguo, se si vuole cialtrone. Di esempi se ne possono fare molti, e molti se ne ricavano dal libro di Barbagallo, che ben inquadra e descrive il personaggio e il contesto in cui si muove. Nell’estate del ’44 Canepa è in Sicilia: indipendentista e con intendimenti, al contrario della maggioranza del movimento, rivoluzionari: di rivoluzione sociale. Prima la Sicilia indipendente, diceva Canepa, e poi le terre o le teste. Ma a rimetterci la testa fu proprio lui, Canepa: teorico e guerrigliero della rivoluzione indipendentista siciliana. Il 17 giugno 1945, alle porte di Randazzo, una pattuglia di carabinieri intima l’alt a un motofurgoncino, proveniente da Cesarò, guidato' da Amato, con a bordo Canepa, Nino Velis, Carmelo Rosano, Nando Romano e il giovanissimo Giuseppe Giudice. La sequenza del fatto, ansiosa e veloce, non risulta del tutto chiaro dal ricordo dei protagonisti: Amato ricorda di aver visto un carabiniere tirar giù dal furgoncino il ragazzo Giudice e di aver poi sentito il primo sparo; Velis ricorda invece prima lo sparo, forse da parte di Canepa contro i carabinieri.

    Discordanza abbastanza comprensibile, se si considera che Amato vide la scena voltandosi per un momento indietro e Velis l’aveva invece di fronte. La differenza dal punto di vista tra Canepa e Amato fu d’altra parte, con tutta probabilità, quella che segna il tragico destino di Canepa, Rosano e Giudice; perché Amato sa di avere già guadagnato la curva, mentre Canepa vede ancora la pattuglia dei carabinieri. Sarebbero bastati un paio di metri ancora, e sarebbero stati fuori tiro: ma Canepa batte sulla spalla di Amato, il segnale stabilito perché si fermi; Amato si ferma, sente uno sparo e poi il grido di Canepa: “Perché sparate, che bisogno c’è di sparare?”; il che vuol dire che erano stati i carabinieri a sparare il primo colpo, forse per intimidazione. Poi seguono altri scoppi, uno dei quali quello della bomba a mano che Canepa portain tasca e che gli dilacera la coscia (la bomba, evidentemente, fu colpita da una pallottola). A questo punto, Velis scappa per i campi; e Romano e Giudice a terra colpiti, Amato si lancia col furgoncino nella discesa verso Randazzo, portando Rosano agonizzante e Canepa ferito. Alle prime case abbandona il furgoncino, raccomandando alla gente di portare in ospedale i feriti.

    Così vien fatto: ma Rosano arriva morto, e Canepa muore dissanguato. Pare che carabinieri e medici fossero convinti di avere tra le mani dei banditi. E che i carabinieri non si siano preoccupati molto (o forse se ne preoccuparono anche troppo), lo dice il fatto che Romano, soltanto ferito, viene portato al cimitero di Giarre per essere seppellito: e solo la solerzia del becchino evita la raccapricciante conseguenza. Così, fortuitamente o deliberatamente, lo Stato italiano scende al primo compromesso con la destra indipendentista. Amato, nella testimonianza raccolta da Barbagallo non dice, per la verità, di aver sentito Canepa urlare: “Perché sparate, che bisogno c’è di sparare?”, piuttosto: “Perché non vi siete fermati?”, e la domanda evidentemente è rivolta ai suoi compagni, non ai carabinieri. Sempre Barbagallo ha cura di riportare l’anonimo resoconto del fatto pubblicato dal quotidiano La Sicilia, il 19 giugno 1945: “…due giovani furono uccisi e un altro ferito; un altro ancora, il più anziano dei sei, fu colpito all’inguine, ma siccome nella tasca dei pantaloni portava una bomba a mano,, la fucilata fece esplodere l’ordigno lasciando l’uomo morto sul colpo…”. Cronaca, chiosa Barbagallo, interessante: “poiché, al di là della veridicità o meno, mette in rilievo che una fucilata colpì una bomba a mano facendola esplodere”; alziamo doverosamente le mani, che le uniche armi che ci sono passate per le mani sono quelle usate quando, ancora con i calzoni corti, si giocava ai cow-boy e ai pellerossa; però Barbagallo, che avrà senz’altro verificato con gli esperti, nota che si tratta di cosa “inverosimile, in quanto una bomba con la sicura non tolta non può esplodere”.

    Non appare comunque arbitrario e neppure frutto di irriducibile dietrologismo, sostenere che anche per Canepa si può utilizzare il celebre titolo de l’Europeo all’inchiesta di Tommaso Bezozzi sulla morte-uccisione del bandito Giuliano: “Di sicuro c’è solo che è morto”. Ma in questa storia, non c’è solo Canepa; troviamo anche il bandito Giuliano, capi mafia che in spietatezza niente avevano da imparare dagli attuali, di qua e di là dell’Oceano: da Calogero Vizzini a Lucky Luciano, da Giuseppe Genco Russo a Vito Genovese… un periodo oscuro e pieno di trame, che si snoda dalla strage a Portella della Ginestra fino al caffè corretto al veleno dell’Ucciardone servito a Gaspare Pisciotta… Le trattative, i compromessi, i “patti”, i papelli di oggi, a confronto di quelli di allora, fanno sorridere; e comunque, di quegli anni, di quelle trattative, di quei compromessi, di quei “patti”, sono figli. E per sperare di riuscire a comprendere qualcosa dell’“oggi” che ci consenta di scongiurare quello che già si prefigura per “domani”, occorre conoscere quello che è accaduto “ieri”, il libro di Barbagallo è lettura fondamentale.

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Valter Vecellio

Valter Vecellio

Nato a Tripoli di Libia, di cui ho vago ricordo e nessun rimpianto, da sempre ho voluto cercare storie e sono stato fortunato: da quarant'anni mi pagano per incontrare persone, ascoltarle, raccontare quello che vedo e imparo. Doppiamente fortunato: in Rai (sono vice-caporedattore Tg2) e sui giornali, ho sempre detto e scritto quello che volevo dire e scrivere. Di molte cose sono orgoglioso: l'amicizia con Leonardo Sciascia, l'esser radicale da quando avevo i calzoni corti e aver qualche merito nella conquista di molti diritti civili; di amare il cinema al punto da sorbirmi indigeribili "polpettoni"; delle mie collezioni di fumetti; di aver diretto il settimanale satirico Il Male e per questo esser finito in galera... Avrò scritto diecimila articoli, una decina di libri, un migliaio di servizi TV. Non ne rinnego nessuno e ancora non mi sono stancato. Ve l'ho detto: sono fortunato.

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