LA VITA È BELLA PERCHÈ ….
A 8 anni sognavo di fare la giornalista. Di girare il mondo e di raccontarne le sue meraviglie. I miei occhi sono stati sempre generosi e sognanti, spesso puri verso quella realtà a volte non troppo benigna. Ho imparato le lingue perchè ho sempre creduto nella forza della comunicazione, ritrovando un fondo di comunione in ognuno dei linguaggi del globo. E scrutando le usanze e le tradizioni, le appartenenze e le contraddizioni ho trovato compreso la mia direzione.
La verità è ciò che piu' mi appassiona, e che mi muove ad indagare questa vita. La verità come l'amore sono due aspetti del Divino che vanno ben oltre le singole confessioni. E li mi conducono. Ad una dimensione superiore alla quale non puoi giungere attraverso scorciatoie.
Ho sognato di fare molto altro nella mia vita, imparando ad ascoltare ed a leggere la gente.
Il raccontare oggi, a questo punto del mio cammino, lo vivo come una responsabilità a cui non mi sottraggo, e che intendo fare con quell'onestà che mi guida nella mia ricerca di vero e di buono. Ed è quello che voglio fare anche qui, tra i pixel delle pagine de La Voce di New York. Il disagio femminile, la violenza contro le donne, contro i minori, l'emarginazione sono ciò di cui mi sono occupata con la meraviglia di chi vuole capire e conoscere, per poi dargli voce. La legalità, la lotta alle mafie, tutte. Alle prevaricazioni che tutti i giorni siamo costretti a subire anche dai più insospettabili.
Questo il proposito. Un viaggio tra Italia e Stati Uniti, liberi e disubbidienti, come siamo sempre stati.
MENTRE TI GUARDAVO CON AMORE, HO VISTO LA MORTE…
Come si può morire a 16 anni per mano di quel giovane amore con cui pensavi di crescere o chissà, forse anche di invecchiare. Fabiana era poco più di una bambina col sogno di danzare. Candida e sorridente. La Tv passa delle immagini di lei che balla leggiadra. Fabiana non c’è più. È la morte del cigno. Viene strappata a questa vita con una barbarie senza precedenti. Prima la furia delle coltellate e poi addirittura le fiamme, che finiscono la ragazza.
Aveva cercato di salvarsi Fabiana. Guardando negli occhi il suo spietato carnefice. Quel giovane ragazzo che avrebbe dovuto proteggerla, amarla. Invece lui le appiccava il fuoco mentre lei con le sue ultime forze cercava di strappargli di mano quella maledetta tanica di benzina. Questo accadeva il 26 maggio a Corigliano Calabro, una piccola cittadina in provincia di Cosenza, completamente scolvolta dai fatti. È un orrore. L’ennesimo che si ripete. In Italia ormai da tempo le donne sono diventate il bersaglio, la proprietà privata, la valvola di sfogo di uomini fragili, egoisti e schizzofrenici. La violenza privata dilaga inarrestabile. È spaventoso solo pensare che il posto meno sicuro in cui stare sia diventato proprio la tua casa, le braccia dell’uomo che dice di amarti. È uno sterminio, lento e costante, che indigna ma che non si arresta. Il femminicidio oggi è il sintomo di una società in affanno cronico, sull’orlo dello sbando, dove l’ombra dell’impunità gioca un ruolo fortemente inquetante, e toglie il sonno.
Dovremmo forse trovare il coraggio di chiamare le cose per nome liberandoci da ogni strascico di buonismo o di romanticismo. Non c’è il “fidanzatino” che uccide la sua ragazza, ma un assassino lucido che senza pietà, e non soddisfatto, le ha persino dato fuoco. Mi risulta difficile intravedere qualunque sentimento che possa lontanamente somigliare all’amore. Certo, fa male guardare in faccia la realtà, ma forse è lo stesso dolore che ha provato Fabiana nel rendersi conto che aveva dedicato il suo tempo ad un mostro che il tempo glielo stava strappando per sempre. Pene esemplari, e soprattutto certezza della pena: questo lo chiede il popolo, lo Stato, Dio. Nessuno sconto, nessuna attenuante. Fabiana non ne ha avute, e nemmeno tutte le altre donne che hanno perso la vita.
Non possiamo sopportare che perizie psichiatriche sfornate a ripetizione per i numerosi uxoricidi e femminicidi restituiscano alla società in breve tempo soggetti pericolosi, capaci di reiterare. Lo abbiamo visto troppe volte: tante donne potevano essere salvate.
Ma a volte c’è come la sensazione che non si faccia abbastanza.
La gente di Corigliano Calabro ha mostrato una solidarietà alla famiglia Luzzi davvero commovente, manifestando per le strade. Un corteo interminabile, composto, silenzioso che ha mostrato una comunità traumatizzata. Nelle prime file i compagni di scuola di Fabiana, giovani dal viso pulito, che hanno scelto di metterci la faccia e di condannare la violenza senza mezzi termini. Quando si tratta di Calabria si sa le polemiche non mancano mai. Il Corriere della Sera on line, a distanza di qualche giorno dalla tragedia, pubblica la lettera di una ragazza di Corigliano che fuggita dalla cittadina ne dipinge una realtà medievale ed anacronistica. Parla di donne comandate, obbligate, e non libere. Denigra e offende la sua stessa madre terra senza scrupoli. Le rispondono in coro migliaia di femmine calabresi che addirittura fondano un gruppo su facebook “donne di calabria” che già da qualche giorno mostra i volti e racconta le storie di ragazze assolutamente protagoniste della loro vita, professioniste affermate, soddisfatte e soprattutto orgogliose di essere calabresi.
Il femminicidio non ha geografie: e chi lo crede continua a perdere di vista il focus del problema. È facile strumentalizzare una storia come questa e cavalcarla, ma chi lo fa, ripeto, mette in secondo piano la problematicità di questo massacro rosa.
In attesa che la giustizia, le pari opportunità, la sanità, la scuola decidano di affrontare seriamente la questione, noi cittadini possiamo solo cercare di offrire il nostro contributo. La famiglia resta comunque il riferimento dei nostri insegnamenti, dei nostri comportamenti. E proprio dalla famiglia che bisogna ripartire, educando i nostri figli ad amare con modalità sane. Non sottovalutiamo l’importanza dell’affettività nelle relazioni: dedichiamo tempo e ascolto ai nostri ragazzi. Anche se la crisi ci sfibbra, non si smette mai di essere genitori: non si va in ferie, ne in cassa integrazione. Quando sei madre o padre non c’è mobilità.