Delicato poetico rincorrersi di memorie e, al tempo stesso, intenso ragionar di cose su cui la filosofia di sempre ha cercato di far luce e compagnia, discreto ricordare chi ci è (stato) più caro, riandando a gesti, parole e immagini depositatesi nell’anima e nel cuore. Questa, in breve, è «La grande festa» (Rizzoli) che Dacia Maraini ci propone, testimonianza d’affetti, d’attese e d’illusioni che han costellato la sua esistenza. Una sorta di diario intimo ove, più che confessare le proprie cose, – emozioni speranze delusioni etc. -, la narratrice si ritrova in compagnia di quanti han con lei diviso la pena e la gioia del vivere: da Alberto Moravia a Giuseppe Moretti, da Pier Paolo Pasolini a Maria Callas, dalla sorella Yuki al padre Fosco… Il tutto, parole e ricordi, in un paesaggio che combina continenti e geografie e tempi i più lontani.
Linguaggio piano e tuttavia assai profondo questo, che ci fa ripensare all’essere, alle sue ragioni, alla fede anche (credere comunque nella vita è già una forma di religione), in un (ri)discutere sul perché della parabola esistenziale, del dove veniamo e del dove andiamo. Il tutto ricamato – con colori e paesaggi ove vanno ad intrecciarsi magicamente miti greco-romani, africani, giapponesi e persino del Nuovo Mondo – intorno al tema del mistero supremo, la “grande festa” del titolo, la morte.
Dove vanno coloro che abbiamo amato e con i quali abbiamo condiviso i giorni? L’atto ultimo è una forma di passaggio ad altro, misterioso e indecifrabile, oppure è un calar definitivo del sipario sulla recita dell’esistenza?
Coloro che ora abitano “il giardino dei pensieri lontani” son solo un ricordo, un sogno, o in una qualche maniera vivono ancora una loro vita pur se di essa è difficile per noi aver coscienza? La morte è davvero “un’isola sospesa sulle acque, dai contorni sfumati e frastagliati” ove trovano dimora gli esseri che abbiamo conosciuto e le miriadi di quelli di cui abbiamo avuto testimonianza dalla storia, dai loro versi, dai loro racconti, musiche, quadri, sculture, ecc. ecc.? Coloro che abbiamo amato – questo il suggerimonto-conclusione – non muoiono mai del tutto se riusciamo a conservarli dentro di noi, “nel luogo dei ricordi e dei sogni”.
Eppure questo narrare della Maraini è racconto di vita, di vita intima e intensa, capace ancor oggi, proprio attraverso le “ricordanze” di riabbracciare, come in un giorno di grande festa, amici e persone amate, senza celare alcun sentimento, rivivendo di nuovo i momenti tesorizzati dentro e mai cancellati, non solo a rinnovar compagnie usate e antiche, ma anche a ritrovar consolazione e sollievo alle pene, alle contraddizioni e al male che spesso l’oggi purtroppo ci riserva.
Ne vengon fuori, così, con una naturalezza che si fa canto coinvolgente ed elegiaco, ritratti insoliti e nuovi di personaggi che, ciascuno a sua misura, han fatto o han contribuito a fare la storia, dalle abitudini di Moravia alla fragilità della Callas, dall’innocenza di Pasolini alle crudeltà (degli uomini e del destino) che han segnato la fine del padre dei “Ragazzi di vita” e quella di Giuseppe Moretti, l’ultimo suo grande compagno di vita, scomparso prematuramente per via di una grave malattia.
Sincera e struggente qui la Maraini lo è molto più che nelle passate “Bagheria”, “Isolina” o “La lunga vita di Marianna Ucria”. Ma non è tanto la scrittrice in sé ad uscirne alla fine esaltata, quanto piuttosto la donna Maraini, che non nega l’autoritratto attraverso i suoi affetti più privati (senza tuttavia trascurare quelli pubblici), nonché attraverso le sue felicità e i suoi dolori. Pagine ricche d’emozioni forti quindi, che, grazie a parole e pagine e considerazioni coraggiose, sono un’esaltazione del vivere proprio attraverso l’accorata meditazione sulla sua finale ultima estrema “grande festa”.