«Tutta la vita», di Alberto Savinio, pp. 241, Adelphi, Milano, 2011,
Euro 12,00
Illuminista del XX secolo, ironico, tracotante, surreale, metafisico, eccentrico, funambolo, bizzarro, poeta: in una parola, artista a tutti gli effetti. Questo, in sintesi, Alberto Savinio (pseudonimo di Andrea de Chirico, fratello del famoso pittore Giorgio, e pittore egli stesso). Inutile cercare in lui, e nella sua arte (oltre che letterato, Savinio fu anche musicista), squisitezze verbali, o preziosità psicologiche. I suoi personaggi sono immediati, presi nella loro funzione di parti essenziali di una commedia sociale, alle prese con situazioni familiari, a volte anche banali: mogli, mariti, ragazzi, personaggi-marionette, fidanzate, commendatori, attori di storie quasi da fiera, esaspera(n)ti e monotoni, meschini e inferociti dalla vita domestica.
Tutti alla strenua ricerca di un sé, di un “ubi consistam”, sognatori tragici, capaci anche di sacrificarsi e immolarsi, per un bisbiglio percepito tra i fruscii delle foglie, nei parchi, nelle case.
Provate a leggere, ad esempio, questi racconti di «Tutta la vita» (ripresentati di recente dall’Adelphi, che di lui prosegue con metodo e costanza, la ripubblicazione delle opere) per rendervene conto (a cura e con note di Paola Italia); un universo popolato da parole pronunciate da cose e mobili in una sorta di trasognante realtà di cui gli uomini (e le donne) sembran solo appendice. “Poltrondamore” (le confessioni di una poltrona su cui una moglie consumava i suoi tradimenti), in questa luce, è forse tra le cose più esemplari e significanti e così pure la "pianessa" e ancor meglio la "Casa della stupidità" per la sua drammatica modernità e i riferimenti a quanto ci si muove oggi, soprattutto in politica, intorno), o “Poltromamma” e “Paterni mobili”; anche se, come testamento riassuntivo, forse pochi riescono a battere il “Tutta la vita” conclusivo, che dà poi il titolo alla raccolta.
Al di là della stranezza delle situazioni (Savinio è certo da considerarsi tra i nostri maggiori surrealisti), di un susseguirsi quasi stentato e scomposto di atteggiamenti e di intuizioni, si fa strada spesso una protagonista di cui ci mette in guardia lo stesso autore: la morte, non come incubo o paura, ma piuttosto come amica, addirittura piacevole, che compone dissidi e contrasti e appiana contraddizioni emotive laceranti e… credibilissime. Spesso queste sue creature vivono quasi in sogno le loro sensazioni, le spezzettano, le vivisezionano dialetticamente, vi ragionano sopra, senza tralasciare alcun particolare,ossessivamente, fino a giungere all’esasperazione, al parossismo, “presi” dal loro stesso cadere a pezzi, dall’incanto di un qualcosa di vivo o di fisso per sempre nel tempo, dal suono di uno strumento a riempire stanze vuote e apparentemente prive di passioni e vita.
Storie di disadattati dall’esistenza, che tentano a relazionarsi con gli altri, di delusi, di pseudo-eroi alla disperata ricerca di sé, incapaci di accettarsi per quello che sono e impossibilitati, al tempo stesso, di vedersi “altro”, eppur capaci ancora, spesso masochisticamente, di vivere il processo della separazione, benché ultima e amara, e di goderne.
Un ridere beffardo ne deriva, uno staccarsi di foglia dal ramo che è spesso il suo contrario, una realtà che si sorpassa costantemente e si finge eterna proprio quando si riscopre in frantumi. Quale umanità è dunque questa? Quali vicende? Ecco poi, giustificati in tutto e per tutto, il rincorrersi di fantasmi, il ritorno favoloso, qua e là, di una classicità che la civiltà moderna ha corrotto e corrompe ancora, per strade ove ci si ritrova in solitudine. Incubi, quindi, più che sogni; un’immaginazione vivida e ricca, e una libertà fantasiosa che attraverso le parole prende forma facendosi gioco (apparentemente) del malcapitato intelletto.