A lato, la copertina del libro; Sotto, l’autore Giorgio Bertellini.
Come nasce uno stereotipo? Com’è che si forma, nell’immaginario collettivo, l’idea di un popolo, una terra, una razza? E nello specifico, come si è configurata e dove ha attinto i suoi tratti, colori, elementi quell’immagine d’italianità che dalla fine del diciannovesimo secolo (periodo a cui risalgono le prime migrazioni verso l’America) ancora persiste e si tramanda?
Nel saggio “Italy in Early American Cinema: race, landscape and the pictoresque” (Indiana University Press, 2009) Giorgio Bertellini, professore presso l’Università del Michigan, cerca le tracce di questi elementi a partire dalle prime immagini proposte dal cinema americano per arrivare a constatare che queste lo precedono e risalgono a una tradizione estetica precedente alla motion picture, la pictoresque. Lo stile pittoresco, ci spiega Bertellini, raggiunse la sua popolarità durante il diciottesimo secolo quando l’aristocrazia nord europea iniziò a utilizzarlo per illustrare i viaggi e l’esperienza culturale legati all’Europa mediterranea. In particolare, l’Italia, con i suoi vulcani e la sua natura selvaggia divenne un affascinante spettacolo di forza primitiva, mentre i suoi paesaggi di campagna erano ritratti come paradisi pastorali. La funzione del pittoresco è difatti quella di cogliere elementi caratteristici di ambienti e personaggi incoraggiando lo sviluppo di stereotipi. Questa tecnica figurativa, dall’Europa traversò l’Atlantico e giunse in America dove servì ad informare sugli scenari nazionali di cui aveva provenienza e sugli abitanti dei luoghi rappresentati.
Basato sulla tesi di dottorato che nel 2002 valse a Bertellini il premio come miglior tesi dalla Society for Cinema and Media Studies, “Italy in Early American Cinema” indaga in che modo le rappresentazioni pittoresche abbiano contribuito a formulare quelle idee di identità nazionale e differenza razziale che il cinema americano ha poi visualizzato e tramandato negli anni. Nonostante il lavoro di Bertellini si concentri su come i primi film americani rappresentarono gli italiani e come gli italiani stessi reagirono a tali rappresentazioni, l’obiettivo dichiarato del libro è quello di rintracciare l’utilizzo e la diffusione del pittoresco nel cinema in senso lato, come strumento di percezione volto a rendere familiari immagini di persone, luoghi e culture straniere. Difficilmente, viene spiegato nel saggio, il cinema americano ricorse al pittoresco per rappresentare le popolazioni latine, gli afro-americani o gli asiatici cosa che invece accadde per gli immigranti provenienti dal Sud e dall’Est Europa che non si qualificavano come puramente “bianchi” ed erano considerati alla stregua dei barbari. Tra questi gli italiani, uno dei più numerosi gruppi migranti in Nord America nonché popolazione tipicamente associata alle rappresentazioni pittoresche. Bertellini intende quindi esemplificare la lettura del primo cinema americano facendo attenzione a come le rappresentazioni paesaggistiche associate allo sviluppo narrativo trasportino idee distinte sulle differenze razziali e il destino nazionale.
Nato a Mantova, Giorgio Bertellini si laurea prima in filosofia alla Cattolica di Milano e poi consegue un dottorato in Cinema Studies a NYU; con questo libro riceve il Book Award dell’American Association of Italian Studies. Intrigati e ammirati dall’accuratezza del suo saggio e dal fascino –non solo in quanto italiani- delle tematiche oggetto di studio, poniamo al Professor Bertellini alcune domande di approfondimento:
Mi piacerebbe poterle chiedere dove e come nasce l’interesse per la definizione dello stereotipo o del carattere italiano così come rappresentato nell’immaginario (e non solo) americano. Lo si deve esclusivamente ai suoi studi in materia cinematografica o -come molti degli Italiani che si sono trasferiti in America- è un interesse proporzionale alle volte in cui Le hanno esclamato: “Ah, sei italiano!” Come se in quella definizione vi fossero racchiuse infinite informazioni pregresse?
«Se l’interesse per gli stereotipi razziali dell’italiano è vecchio di secoli, in America ovviamente il fenomeno è più recente. La novità del mio lavoro, se di novità si può parlare, sta nell’aver riconosciuto nella struttura e nella fortuna del pittoresco un vettore di stereotipi italici in grado di attraversare periodi storici, ambiti geografici e media diversi. Va chiarito che non avrei potuto sviluppare la mia analisi senza i lavori di centinaia di altri autori, anche quando (o specialmente quando) di pittoresco proprio non parlano. Lei ha ragione: quando un americano, esclama “ah sei italiano!” sta mobilizzando molti concetti impliciti. Aggiungerei che spesso non è difficile riconoscere in quei concetti delle immagini letterarie e/o visive legate al pittoresco».
Lei apre la sua indagine attraverso l’analisi di un’immagine tratta dal Padrino II in cui si vedono, riunite su di un unico sfondo, le città di Napoli e New York poste tra di loro quasi specularmente. Un’immagine che risale a inizio secolo ventesimo ma che già si caricava di molte delle simbologie legate alle due culture situate alle sponde dell’Atlantico. Ci può spiegare meglio l’importanza di questa immagine nella sua ricerca?
«È un’immagine di pittoreschi combinati che Coppola utilizza nel suo film del 1974 e che il nonno paterno usava all’inizio del secolo in America come logo commerciale per una ditta di spartiti musicali italiani. Per funzionare l’immagine doveva essere leggibile e apprezzabile. E lo era negli anni Settanta come all’inizio secolo. È questa familiarità implicita che a me interessava. Il pittoresco non si può scoprire: ce l’avevano sotto gli occhi gli immigrati a Napoli come a New York. Importato in America all’inizio del diciannovesimo secolo, il pittoresco giocò un ruolo dominante nell’estetica pittorica, fotografica e cinematografica statunitense. Lo fece perché, attraverso il suo gioco di avanscena, fondali e cornici, riusciva a creare un’armonia tanto intrigante quanto rassicurante fra natura incontaminata e selvaggia da un lato e presenza umana dall’altro. Questo meccanismo era cruciale per quella combinazione di espansione militare e turismo (pensiamo all’industria ferroviaria) che caratterizza la conquista del West. Artisti e fotografi lo usarono per rendere affascinante (e nazionalizzare) lo spettacolo dell’occupazione del paesaggio americano dove, appunto, la presenza umana doveva armonizzarsi con la pericolosa e affascinante natura inviolata (la cosiddetta wilderness)».
Qual è l’anello di congiunzione tra il pittoresco e il cinema?
«Quando il cinema americano dei primi due decenni, che è di base a New York, cerca un linguaggio per narrare storie di immigrati e di adattamento sociale, lo fa attraverso i meccanismi di armonizzazione formale e ideologica del pittoresco. Era una lingua franca conosciuta da tutti: registi, operatori di macchina e, soprattutto, spettatori, qualsiasi fosse la loro origine nazionale. Quando George Beban (che interpretò ruoli italiani a teatro e al cinema dal 1911 al 1926) scrive esplicitamente che i personaggi italiani devono colpire il pubblico attraverso l’uso del pittoresco non fa altro che chiudere il cerchio. Ecco perché l’immagine del Padrino II è centrale: parla un linguaggio comune ad un tempo secolare e profondamente atlantico».
Nel suo libro dice che gli italiani, in oltre un secolo, si sono ritrovati spesso caratterizzati come di temperamento instabile, gelosi e vendicatori ma al contempo artisticamente dotati, passionali e generosi. Com’è possibile che questa identificazione dell’italiano sia tuttora saldamente radicata nonostante le due culture, quella americana e quella europea, stiano indubbiamente andando verso una forma di globalizzazione?
«Il pittoresco è un linguaggio visivo e narrativo che per secoli ha mediato l’incontro fra quelle regioni e popolazioni nordeuropee ritenutesi più moderne e civilizzate e quelle considerate ai margini, da un punto di vista geografico, culturale e razziale. Questa mediazione non ha funzionato solo in termini di controllo e gestione della distanze e differenza, ma ha anche operato secondo dinamiche di intrattenimento e contemplazione: il cosiddetto “diletto nella differenza”. Ecco come sono emersi gli stereotipi nazionali e razziali così comuni nella cultura popolare. Possiamo benissimo protestarne i meriti, ma a me premeva capire la loro storia e funzionamento. Quando parliamo di globalizzazione parliamo di circolazione intercontinentale. La globalizzazione era già perfettamente operante con il fenomeno dell’immigrazione, di cui parla il mio libro. Servirebbe un altro studio per affrontarne i fenomeni più recenti. Ma per esempio la circolazione mondiale dei Sopranos o, e al di là degli stereotipi italiani, il successo dei film sul pittoresco balcanico, inclusa la musica gitana, mi pare vadano nella stessa direzione».
Se è vero che le prime migrazioni verso l’America provenivano dal Sud Italia per cui è comprensibile quanto esatto che siano stati i caratteri del nostro sud a definire originariamente l’immagine dell’Italiano all’estero, come si relaziona, nel suo studio e nella rappresentazione che ne da il cinema americano, l’italiano proveniente dal Nord o più in generale, l’italiano del XXI secolo?
«Se all’inizio del secolo, l’arrivo degli immigrati meridionali in America venne letto attraverso le rappresentazioni pittoriche e fotografiche centrate sulle eruzioni del Vesuvio e dell’Etna, l’arrivo degli italiani del Nord non era filtrato da simili stereotipi. Da un punto di vista di mero quoziente d’intrattenimento, l’italiano del XXI secolo non ha quei tratti caratterizzanti e riconoscibili. È omologato all’europeo occidentale e quindi anonimo e, come tale, non particolarmente interessante. L’Italia delle pubblicità può anche essere moderna ed elegante, ma sotto sotto spesso rivela molti dei caratteri del pittoresco. Pensi all’enfasi sull’autenticità del cibo e sulla spontaneità dei registri emotivi, o consideri il compiacimento estetico per la compresenza di palazzi antichi, viuzze strette e vespe sfreccianti. Il pittoresco è duro a morire».