A lato il regista al termine dell’intervista; sotto, una scena dal film; in basso, red carpet per la prima del film: Lunetta Savino, Elena Sofia Ricci, Paola Minaccioni insieme a Ozpetek.
Termina ufficialmente oggi, con le premiazioni dei vincitori, l’edizione 2010 del Tribeca Film Festival. Al momento in cui scriviamo (28 Aprile per chi legge, ndr) non si conoscono ancora i film vincitori del Festival per cui non resta che tifare per l’unico italiano in concorso, “Mine Vaganti” (Loose Cannons) di Ferzan Ozpetek.
Dopo aver seguito la proiezione del film per almeno tre giornate una cosa però la possiamo dire: se alla prima pubblica di lunedì 26 il pubblico era composto per la gran parte di connazionali, il giorno successivo vi era una folta rappresentanza americana e il risultato è stato pressoché lo stesso, ovvero risate, commozione, plausi.
Oggi7 ha incontrato privatamente il regista che ci ha parlato del suo ultimo film, della retrospettiva personale che il MoMa di New York gli ha dedicato nel 2008 e di perché, secondo lui, sia sbagliato considerare l’Italia un paese razzista.
In un’intervista rilasciata al nostro giornale in occasione della retrospettiva al Museum of Modern Art (vedi Oggi7 del 7 Dicembre 2008), ci anticipava l’intenzione di ambientare il suo prossimo film nel Sud Italia. Aveva già in mente allora la trama e i protagonisti di “Mine Vaganti”?
«Davvero già ne parlavo? Ho pensato per la prima volta a questo film cinque anni fa quando ero a New York a cena con un amico che mi raccontava di trovarsi in difficoltà perché avrebbe voluto rivelare la sua omosessualità ma il fratello lo aveva anticipato e ora sentiva molto addosso la responsabilità di far felice la madre. Quando ho detto a Domenico (Ozpetek passa alla Fandango di Domenico Procacci nel 2008, ndr) pensa se facciamo un film su una cosa del genere, lui è impazzito e ha detto guarda questo film funzionerebbe dappertutto, una bomba! Mi sono accorto delle sue parole quando a Berlino in quella sala di 1700 posti il film ha ricevuto un’accoglienza pazzesca e ha subito venduto in 23 paesi. Sono stato molto contento e anche stupito di questo entusiasmo così forte».
A fronte dell’ottimo successo ottenuto alla Berlinale e consapevoli di quanto gli americani amino la commedia all’italiana, quali sono le sue aspettative per il Festival?
«Io non mi aspetto mai niente. Poi le decisioni di una giuria del festival non si possono mai sapere, io sono stato giurato varie volte a Venezia e vincono film che magari non avresti pensato».
Sono già in atto delle trattative per distribuire il film negli Stati Uniti?
«Sì, stanno trattando delle proposte per il mercato americano che si concluderanno tra oggi e domani».
Lei in qualità di regista ha sempre posto il tema dell’omosessualità in prima linea e questo film non fa eccezione. Ma qui le tematiche per così dire “controverse” sono in realtà altre: la mentalità di provincia, le relazioni intra-familiari, l’incapacità di accettare le aspirazioni dei figli. Tematiche antiche eppure ancora radicate. Vuole forse suggerire che se la società di oggi non è ancora riuscita a fare i conti con queste problematiche, tanto vale trattare il tema dell’omosessualità con la giusta ironia?
«Io non credo alla parola omosessuale. Sono contrario a definire una persona omosessuale, tu non puoi presentare una persona parlando della sua sessualità, dalla cintura in giù. Io uso nel film la parola omosessuale perché mi fa sorridere. Politicamente la parola funziona per avere alcuni diritti, ma se ci pensiamo, diritti di che cosa? Sono i diritti della persona quelli che contano. Non mi piace definire con la sessualità una persona. Qui ho preso in giro delle situazioni. Pensa quando il film è uscito in Turchia alla press conference mi hanno domandato: che ne pensa di questa cosa che ha detto il ministro delle pari opportunità turco che l’omosessualità è una malattia? Io colto di sorpresa ci sono rimasto perché se lo dice una persona per strada mi metto a sorridere ma se lo dice un ministro è grave la cosa! Ma poi ho risposto: ah si, è una malattia che guarisce facilmente se uno prende un’aspirina al giorno per 10 giorni. Invece per il ministro non c’è niente da fare, per l’omofobia non ci sono ancora cure! Nel film parlo però d’incomprensione, di non capirsi, di vedere nel proprio figlio un tuo prolungamento. Quella è una cosa da correggere. Un genitore oggi non dovrebbe chiedersi cosa fa o cosa non fa ma mio figlio, ma se è felice o no. Anche verso le persone che ci sono vicine, non dobbiamo pensare cosa fanno e cosa non fanno e fargli fare le cose che piacciono a noi, dobbiamo pensare se sono felici o no, questo è quello che conta nella vita».
Ritorna a New York dopo che nel 2008 il MoMa le dedica una retrospettiva come rappresentante del cinema italiano, dedicata in passato a nomi come Rossellini, De Santis e Amelio. Come l’ha fatta sentire?
«Già essere considerati uno dei registi più importanti del cinema italiano per me, che vengo dalla Turchia, è la dimostrazione di come accoglie l’Italia. Di questo non parla mai nessuno, anzi ultimamente si sente molto parlare di razzismo. Ero stracontento e molto emozionato. Quando in apertura la curatrice ha parlato di me…ecco lì, tornando a “Mine Vaganti”, volevo che mio padre che non c’è più, (e a cui Ozpetek dedica il film, ndr) sentisse quelle parole perché alla fine noi, anche a 80 anni siamo quei figli che vogliamo piacere ai nostri genitori, quello è un conto che non saldiamo mai».
Quindi sostiene che l’Italia non è poi così razzista come la dipingono. Cos’è che ha fatto la differenza nel suo caso?
«Credo che non sia razzismo quello che incontriamo in Italia ma la paura di perdere le proprie cose e la propria identità. Viene anche inculcato in testa alla gente dicendo che il diverso è il pericolo, è la tendenza del mondo. Credo che sia una cosa economica, dello straniero che sottrae, poi ci sono dei politici che fanno leva su questo, la stampa lo sa e finisce che vai incontro a delle situazioni spaventose. Io negli anni ho cercato di vedere le cose in modo obiettivo. Ci sono delle situazioni che danno fastidio, a me ad esempio non piace vedere i venditori di Kebab ovunque, perché il kebab è buono in Turchia. Il miscuglio della cultura ci sarà sempre di più, io sono stato uno dei primi esempi nello spettacolo ad avere un nome diverso e fare cinema italiano ma s’incontrerà sempre più di frequente il medico che si chiama Amhed. Oggi come oggi, dopo la caduta del Muro di Berlino, dopo le Torri Gemelle, il mondo ha paura del diverso, nell’insieme del diverso, dal colore degli occhi a quello dei capelli, anche una bionda fa paura oggi! In più c’è un appiattimento culturale totale. Il malessere quotidiano di oggi viene incolpato al diverso. Come può dire un politico dire le cose non funzionano per colpa mia? No, le cose non funzionano per via dell’immigrato che è arrivato qui e ti ha rubato il lavoro. È stato così anche ai tempi del nazismo e nei secoli. Quelli di sinistra dovrebbero capire il mal di vivere delle persone perché se io sono un pendolare che vado da Milano al centro con la metro o il treno e trovo dieci immigrati disperati che dormono e io non mi posso sedere, per forza di cose comincio a provare rabbia verso loro perché non mi puoi mettere in condizioni disagiate. Bisognerebbe vedere le cose in modo obiettivo. Gioca molto la televisione, la politica, la comunicazione. Tu puoi far odiare una persona in 5 minuti. C’è anche da considerare che sono molto amato dalla gente e non credo che un regista italiano dica oddio c’è questo qui che è arrivato dall’estero e mi ruba il mestiere!»
Progetti futuri?
«No, al momento mi concentro sulle uscite del film a luglio in Germania e Francia. A fine Maggio primi di Giugno faranno all’UCLA di Los Angeles un’altra retrospettiva e sono molto felice di questo».