Sopra Corrado Levi all’inaugurazione della personale.
Poliedrico. Non vi è definizione meglio calzante per presentare Corrado Levi, intellettuale, architetto, Professore alla Facoltà di Architettura di Milano, artista.
Nato a Torino nel 1936, in passato allievo di Carlo Mollino e Franco Albino, dieci anni fa sceglie di costruirsi casa in Marocco, nella città di Marrakech. Nel 2006 espone all’Istituto di Cultura di Rabat con la mostra “Marrakech Revisited: Venti volte un vicolo di Marrakech pensando a venti artisti italiani” che grazie alla curatrice Marina Urbach e al Direttore Stefano Albertini, dal 4 al 28 Maggio è visibile presso la Casa Italiana Zerilli Marimò.
Ventidue tavole (venti + due di cui una ispirata a Matisse e l’altra senza mentore) in legno di cedro, “legno nobile dal profumo persistente” -si legge nel catalogo- “di cm 43×30, incise da sensibili artigiani locali sotto la guida dell’autore. Un percorso nell’arte italiana e nella città imperiale. Un treno sbuffa alla maniera metafisica di de Chirico, gli aerei di Alighiero Boetti compaiono tra i vicoli. E poi ancora l’immaginazione onirica di Osvaldo Licini; la visione profonda di Giorgio Morandi; l’ambiguità di Luigi Ontani.” Corrado Levi sceglie un vicolo della Medina per ripensare ai grandi artisti italiani. Lontani dal plagio e dalla ripetizione stilistica, “Marrakech Revisited” vuole essere un omaggio all’arte contemporanea nostrana, osservata con una punta d’ironia e calata in atmosfere da mille e una notte.
Abbiamo incontrato l’artista durante l’opening dell’esposizione e gli abbiamo chiesto di parlarci di questa mostra, del suo speciale rapporto con le arti (tutte) e di come vive un italiano in Marocco.
«Io sono stato molto a Marrakech negli ultimi dieci anni, ho una casa che mi sono costruito personalmente e questo è il vicolo di fianco a casa mia, uscendo a sinistra. Ho pensato di fare venti volte questo vicolo, pensando a venti artisti italiani. Per esempio, De Chirico che è l’imprevisto, la situazione strana, che ho ripreso facendo passare un trenino sopra le strade della Medina e la bandierina che lui mette sempre nei suoi quadri è giù per terra. Ho interpretato questo vicolo secondo lo spirito essenziale dei grandi artisti italiani. È stato un gioco mentale, ma un gioco serio nel senso che cercavo di far capire le cose con molto humour».
Qual è stata la logica nella selezione degli artisti omaggiati?
«Sono venti artisti straordinari. Ci ho messo due anni a preparare questo ciclo. Quando l’hanno esposto a Rabat hanno fatto un lavoro meraviglioso con pochissimi mezzi. Anche qua il direttore Albertini ha accolto la mostra in maniera perfetta e molti di questi artisti avevano esposto a NY».
Perché il Marocco? E che relazione intrattiene con questa terra d’Africa?
«Io adoro il Marocco. La mia casa è in un vicoletto chiuso, dove non passano le macchine che qui chiamano “derb”. Il Marocco è un caso. Venti anni fa sono stato a passare un Natale bellissimo, poi dieci anni fa sono tornato a cercare il caldo, mi mancavano pochi anni al pensionamento e mi sono detto, ecco, io qua compro la casa e mi piazzo. Ora vi sto molto meno perché la vita è uno scherzo, in tre mesi ho fatto una mostra qua, una al New Tate di Londra e una alla Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea di Bergamo. In pochissimo è scoppiato tutto e devi stare attento che non ti scoppi nelle mani!»
Come vive un italiano a Marrakech?
«Io sono molto solo. Vado in bicicletta al mattino con il sole nella schiena anche d’inverno, è una meraviglia! Lavoro tutto il pomeriggio e la sera esco e vado in un ristorante marocchino molto buono o in alcuni ristoranti italiani ottimi. In pratica io lì lavoro e me la godo, questo è il paradiso –ripete ben due volte Levi e nella voce c’è un senso di pace così estraneo a NY. Poi continua- Sai, andare in questi posti, lo puoi fare o da giovane e entri nella cultura o lo fai da vecchio –sorridendo si corregge- da anziano come lo sono io, che hai niente da re-imparare».
Quanto c’è del Marocco nella sua arte?
«Il Marocco lo porto in questa mostra nel legno di cedro, nel profumo del cedro e nell’abilità manuale di questi miei amici artigiani. C’è il vicolo e il fatto che là ho potuto pensare all’Italia in maniera diversa, ho potuto spremere questi artisti dentro di me nel loro essenziale. Però io preferisco che le due culture si guardino e s’impari l’una dall’altra senza pasticciare, senza fare la marmellata. Con molta delicatezza, guardarsi a vicenda e capirsi».
Lei è senza ombra di dubbio una personalità poliedrica. Nella sua vita ha spaziato e fatto sue molteplici arti e discipline. Se ne sente l’influenza reciproca oggi nei suoi lavori?
«È una domanda che mi sono posto anch’io. Fa parte di me cambiare sempre lavoro. Però cerco di fare le cose seriamente, non pasticcio e cerco di tenere le varie discipline separate perché le metodologie dell’una sono diverse da quelle dell’altra. Concettualmente è la stessa cosa, io faccio l’architetto come realizzo questi quadri, con lo stesso identico spirito. Siccome ogni disciplina esplora dei campi specifici, l’architettura, l’arte, la musica, è però nell’intervallo tra l’una e l’altra che una scintilla succede. Anche tra la musica e l’arte moderna se ci pensiamo, la casualità di Cage che ritrovi nell’Action Painting…io adoro pensare a questi rapporti, impari sempre qualcosa in questi salti!»