<<Sembra incredibile ma il ministero degli Esteri italiano non ha un archivio storico funzionante: quello che c’è, è fermo alla fine degli anni Cinquanta, primi anni Sessanta. Ovvero: i documenti magari ci sono, ma sono disorganizzati. Impossibili da usare per uno studioso o un ricercatore. A partire dagli anni Sessanta, insomma, tutto diventa lacunoso. Le notizie sistematiche di fonte italiana si trovano negli archivi giornalistici, non in quelli della Farnesina. Così, per questo mio libro, paradossalmente, ho dovuto consultare gli archivi americani. Dall’Italia sono riuscito ad avere qualcosa soltanto grazie alla gentilezza personale di alcune famiglie di politici e statisti ormai scomparsi, che mi hanno fornito le carte conservate in casa. Ma il grosso, ripeto, l’ho trovato tra i documenti ufficiali Usa».
Eccola qui, la prima notizia clamorosa. Siamo andati a Roma alla presentazione di L’amministrazione Nixon e l’Italia (edizioni Eurilink). L’autore è Valerio Bosco, un giovane – 33 anni – ma agguerrito studioso, direttore di ricerca presso il CeMiSS, Centro militare di studi strategici, esperto associato in affari politici presso l’ufficio di collegamento ONU con l’Unione Africana e, infine, anche collaboratore di America Oggi. Lo abbiamo intervistato prima che iniziasse la tavola rotonda in cui il suo libro è stato discusso, in una grande sala della Camera dei deputati. Glielo abbiamo fatto ripetere, questo fatto del vuoto archivistico e documentale del nostro ministero degli Affari Esteri. Perché ci sembrava impossibile. Lo ha fatto, senza temere di essere smentito. E poi, ainoi, la notizia è stata confermata anche dai vari studiosi che si sono alternati al microfono. Così come, con un diplomatico sorriso che forse nascondeva un certo imbarazzo, è stata ammessa dallo stesso sottosegretario agli Esteri, Vincenzo Scotti, che ha scritto la prefazione al libro di Bosco perché, come dice, «quando l’ho letto in bozza, ho capito che era veramente buono e ho insistito perché venisse pubblicato subito».
Siamo convinti che chi perde o trascura la propria memoria storica non abbia davanti un grande futuro. Ma tant’è: facciamoci una ragione di questa ennesima e scandalosa prova di inefficienza e mala organizzazione di un nostro ministero e parliamo del libro di Bosco. Perché merita davvero. Il sottotitolo – Tra distensione europea e crisi mediterranea (1968-1975) – inquadra il periodo. Nixon entra nello Studio Ovale con la ferma intenzione di chiudere il fallimentare capitolo Vietnam ma, poi, ne resterà invischiato. Sono gli anni in cui Washington, alla ricerca di una via d’uscita dalla guerra fredda, tenta un’ipotesi di negoziato globale con l’Unione Sovietica – sul tema nucleare ma non solo. Ma sono soprattutto gli anni di Henry Kissinger, l’ex professore di Harvard diventato Segretario di Stat, che, in contrasto con le altre organizzazioni strategiche e di intelligence su cui fino ad allora avevano fatto affidamento i Presidenti americani, rafforza il National Security Council. Da questo osservatorio, Nixon e il suo primo alleato guardano anche alla politica italiana. «Seguono e partecipano alla crisi del centrosinistra e, con un certo sgomento, assistono alla scissione socialista del 1969, agli attentati di piazza Fontana» sintetizza Bosco. E si interrogano, non arrivando mai a capirla fino in fondo, sulla politica di Aldo Moro: quella "strategia dell’attenzione" verso il Pci con la quale il leader democristiano – poi assassinato dalle Brigate Rosse – pensava di poter contenere e in un qualche modo controllare il pericolo rappresentato dal principale partito comunista d’Occidente facendolo compartecipe istituzionale e governativo. È chiaro, e i documenti in gran parte inediti raccolti da Bosco lo confermano, che Moro non riesce a convincere l’amministrazione americana. Che, intanto, guarda al tentativo di Giorgio Almirante di rinnovare in senso democratico il suo Movimento Sociale erede del fascismo. E osserva, essendone informata in anticipo, le oscure trame golpiste del generale Valerio Borghese.
Che cosa chiedeva all’Italia l’amministrazione Nixon?
«Quello che chiedeva anche a Spagna, Grecia e alla stessa Francia. Che le potenze mediterranee iniziassero a farsi maggior carico della sicurezza della regione, non lasciandola solo a Washington. Negli anni della crisi petrolifera l’amministrazione americana ha l’esigenza di rimodellare la propria strategia e le proprie linee d’intervento in politica estera. Vuole un diverso impegno dei paesi europei non solo nel Mediterraneo ma anche sugli altri dossier internazionali, compreso quello mediorientale. Perché in quel periodo l’Unione Sovietica amplia la propria attenzione nell’area, formando alleanze sulla sponda meridionale del Mediterraneo e anche all’interno del conflitto israelo-palestinese. Perciò Nixon e Kissinger guardano con attenzione all’Italia e, come dimostrano i documenti, seguono settimana dopo settimana tutte le complesse evoluzioni della politica romana, lo scontro tra Moro e Fanfani, l’avvitamento dell’Italia nel terrorismo».
E i politici italiani dell’epoca come reagiscono a questo cambiamento americano?
«Con una certa perplessità. Dettata anche dalla non voglia di modificare situazioni ormai acquisite. Per esempio, quando nel 1969 Washington prospetta la necessità di una riduzione della propria presenza militare in Italia, con il dimezzamento delle basi di Verona, Vicenza e Livorno e la possibilità di ulteriori riduzioni del personale americano e italiano a Napoli e Aviano, ci sono due reazioni contrastanti da parte della Dc e del Pci. La dirigenza comunista di Botteghe Oscure ne approfitta per chiedere polemicamente a che cosa serve restare ancora sotto l’ombrello della Nato se l’alleato americano non offre più le stesse garanzie di sicurezza e riduce la sua presenza. La reazione di Palazzo Chigi, guidato all’epoca dal dc Mariano Rumor, è invece particolarmente seccata. Ma per altre ragioni. Rumor si preoccupa per la perdita di posti lavoro che la riduzione delle forze armate Usa – in tutto 1.600 soldati in meno – avrebbe inevitabilmente portato nel suo collegio elettorale di Vicenza e Verona. Washington propone subito un compromesso: il licenziamento degli impiegati italiani nell’area di Verona e Vicenza non sarebbe cominciato prima delle elezioni amministrative previste per la primavera del 1970».
Ma, sostanzialmente, Nixon e Kissinger come consideravano la politica estera italiana?
«C’è un altro episodio che può rispondere a questa domanda: la vendita di armi alla Libia. Questione attuale anche oggi, il colonnello Gheddafi è tuttora capace dalla ex colonia italiana di condizionare in un qualche modo molte scelte della nostra politica estera. Negli anni tra il 1970 e il 1973, Roma stava esaminando la possibilità di vendere armi a Tripoli. Si trattava di armi sì prodotte in Italia, ma sotto licenza americana. L’autorizzazione, per nulla scontata, viene concessa pur trattandosi di un atto che si pone ai margini dell’Alleanza Atlantica: era chiaro che Gheddafi non avrebbe usato quelle armi per scopi interni ma le avrebbe dirottate in Medio Oriente, ai palestinesi. Eppure il "sì" viene dato. Perché nel 1972 l’Italia sembra virare verso un equilibrio neocentrista: a palazzo Chigi si insedia un governo guidato dal dc Giulio Andreotti che vede la partecipazione, dopo molti anni, anche dei liberali di Giovanni Malagodi. Un esecutivo che non durerà molto, ma a cui Washington guarda con favore perché per un momento sembra poter allontanare lo spettro dell’avvicinamento dei comunisti al potere».
È un episodio ancora scomodo da ricordare. Il che spiega, forse, perché a questa presentazione del suo libro – pur essendo molto affollata, posti esauriti anche se la sala è grande – manchino alcuni volti noti della diplomazia e delle Forze Armate italiane…
(Ride) «Questo lo ha detto Lei, non io…».
In quegli anni nixoniani ci sono state altre vicende che hanno reso difficili i rapporti tra Italia e Stati Uniti?
«Sì. Per esempio c’è stato un caso Sigonella "pre Craxi". Erano gli anni tra il 1969 e il ’70, con Moro al governo. Il quale non concede il permesso al trasporto di armi e di missili Phantom a Israele attraverso la base di Sigonella. Il motivo è che Moro, in quella stagione, stava lavorando a una possibile soluzione della crisi mediorientale attraverso il ruolo delle Nazioni Unite. Si sentiva un po’ emarginato dal concerto internazionale delle grandi potenze, Francia, Gran Bretagna, Usa e Unione Sovietica. Queste puntavano a una risoluzione del conflitto israelo-palestinese da trovare al di fuori dell’ambito Onu. Moro si oppose, spiegando che un’approvazione alla richiesta americana avrebbe compromesso tutta la sua politica estera tesa al perseguimento dell’equidistanza e dell’equilibrio nei confronti della questione mediorientale».
Gli americani forse non la presero bene. Ci furono reazioni?
«Guardi, da quello che ho scoperto io, non ci furono conseguenze. Così come ho scoperto che, contrariamente a quanto tende a pensare un certo filone di pensiero dietrologico, anche nella vicenda del tentato o fallito golpe Borghese e, in generale della cosiddetta strategia della tensione, non ci fu alcun ruolo di Washington. Dai documenti che ho visto è chiaro che l’amministrazione americana era perfettamente a conoscenza di questi fatti eversivi da parte della destra italiana ma – almeno a quanto risulta a me – non c’è alcun placet formale o informale. Né da Washington né dall’ambasciata Usa in via Veneto».
L’ambasciata però doveva avere qualche preoccupazione…
«L’ambasciatore Graham Martin, arrivato nell’autunno del ’69, lamentava la sospensione delle covert actions ed era convinto che lo spostamento della politica italiana verso il centro andasse supportato con azioni non di basso ma di alto profilo, con iniziative di un certo. Ma da Washington le linee guida non vennero cambiate: appoggio sì, ma discreto, nei confronti degli elementi conservatori ma moderati della politica italiana e niente covert actions».
Nel suo libro Lei si occupa solo del periodo dell’amministrazione Nixon. Ci sono però dei punti di contatto o di possibile confronto con l’attuale politica americana verso l’Italia?
«Per rispondere a questa domanda, credo che sia importante capire quando è nato questo mio libro. È nato nella fase finale della Presidenza di George W.Bush, dominata da una politica estera "ideologica". Una politica che negava i principi del dialogo, della mediazione e del contatto. Anche verso altre grandi potenze, per esempio la Russia accusata di non rispettare i diritti umani o la Cina che ha queste e altre problematiche interne. Il realismo di Obama oggi e di Nixon ieri è quello di associare un’impostazione sempre ideologica, basata sui principi del diritto di democrazia e di libertà, al riconoscimento degli interessi – e della legittimità di questi interessi – delle grandi potenze. Tutta l’attuale politica estera americana può essere vista come ruotante attorno al riconoscimento degli interessi della Cina come nuova potenza internazionale. Che va ammessa nel consesso internazionale. E Pechino, non va dimenticato, ha avuto il suo primo riconoscimento – l’ingresso nel Consiglio di sicurezza dell’Onu – proprio grazie alle pressioni dell’allora ministro degli Esteri italiano, il socialista Pietro Nenni. Certo, il tutto era stato pensato – e Nixon lo porterà a compimento – anche in funzione anti-sovietica. Ma, alla base, c’era il convincimento che per il nuovo ordine mondiale non si potesse fare a meno della Cina».
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