Nanni Moretti, regista e attore: “Chi parla male, pensa male e vive male. Le parole sono importanti”. Ettore Mo, giornalista: “Dobbiamo scegliere le parole con purezza, ritrovare la castità verbale>. Andrea Camilleri, scrittore: “Stiamo perdendo la misura, il peso, il valore della parola. Le parole sono pietre, possono trasformarsi in pallottole”. Giovanni Caccamo, cantautore: “Le parole hanno un peso che non puoi vedere / rimangono attaccate come fossero catene / le parole hanno un peso che tu puoi sentire”.
In principio era il Verbo. Il Vangelo di Giovanni non lo esplicita, ma il concetto va allargato a soggetto, complemento, attributi, avverbi. La realtà è allarmante: il vocabolario si è drasticamente impoverito. “Se vent’anni fa l’italiano medio aveva un bagaglio di duemila parole, oggi il lessico è dieci volte inferiore. Dal punto di vista numerico e non solo”.
Ivano Dionigi è il paladino in prima linea nella difesa delle parole giuste. Classe 1948, è latinista, traduttore, accademico, docente di Lingua e letteratura latina all’università di Bologna di cui è stato rettore. Dirige il centro studi La permanenza del classico e presiede la Pontificia accademia di latinità. Fra tanti amori antichi, due prediletti: Lucrezio e Seneca. Maestri che tracciano la via, a saperli ascoltare. Dionigi ne spiega il pensiero agli studenti delle scuole medie e superiori, in un percorso itinerante. Missione di salvataggio sempre più urgente.
Professore, che cosa sta succedendo alla nostra lingua?
“Si è rotto il patto tra le cose e le parole che le definiscono. Eravamo abituati a un mondo solido che sta diventando sempre più immateriale ponendo inediti problemi etici, biologici e culturali. Prendiamo i vocaboli padre, madre, figlio e figlia: prima conoscevi esattamente la loro corrispondenza. Adesso invece siamo disorientati perché tutto, dalla finanza alla sessualità, diventa fluido. Le parole non tengono il passo del cambiamento: si sono staccate dalle cose”.
È l’attualità del futuro virtuale a renderci sciatti?
“La corsa bendata a quello che verrà porta in un vicolo cieco. Si arriva al novum solo partendo dal notum: se ignoriamo le nostre fondamenta, cioè il passato, nessuna scoperta, anche la più importante, darà sollievo all’umanità. Non c’è contrapposizione tra cultura e tecnologia, però è evidente che i linguaggi sono diversi: se non si accordano abbiamo un uomo dimezzato”.
Perché tanta incuria nelle parole?
“Non riusciamo a comunicare, malgrado le apparenze. Comunicare è un verbo di derivazione greca e latina: l’unione di cum e munere, mettere insieme le proprie qualità per rapportarsi agli altri. Sant’Agostino aveva ammonito secoli fa: parliamo ma siamo muti. L’eclissi del valore della parola ci ha resi più poveri e volgari, dobbiamo abbassare la voce e tornare al rigore”.
Mondo smaterializzato, diceva. Computer e telefonini hanno dato il colpo di grazia al nostro scrivere?
“Ai ragazzi ripeto una frase del filosofo coreano Byung-chul Han: <Non abitiamo piú la terra e il cielo, bensí Google Earth e il Cloud. Il mondo si fa inafferrabile, nuvoloso e spettrale». C’erano una volta i maestri e i discepoli, sostituiti da influencer e follower. Le faccine hanno preso il posto dei volti. Non è stato un buon affare: i social hanno creato gli eremiti di massa. Non ce l’ho con lo strumento, che è pericoloso eppure offre molte opportunità. Però dico: attenzione, studiate letteratura e filosofia, solo dopo potrete maneggiare le bombe”.
Il linguaggio approssimativo è figlio della fretta?
“La fretta è nemica delle parole: esige abbreviazioni che annullano il fascino del discorso e dell’affabulazione. Dobbiamo fare la pace con il tempo, messo all’angolo dalla rete”.
Come?
“Tornando ai classici. Insegnano a parlare bene smascherando i trucchi, le bugie, i falsi, quelli che oggi definiamo fake. Un esempio? Flessibilità è un vocabolo soffice, ma si traduce disoccupazione. E il sommerso non è altro che lo sfruttamento del lavoro nero”.
Le parole costruiscono il mondo. Possono anche distruggerlo?
“La parola detta bene è parola benedetta. In greco si dice phamakon, che ha un significato doppio: medicina e veleno. Comunica e isola, consola e affanna, salva e uccide. Fa cessare e scoppiare le guerre”.
Guerra: parola terribile.
“La usano i demagoghi. Tucidide intuì i prodromi del conflitto tra Sparta e Atene proprio dal cambiamento in negativo del linguaggio: le parole dette male sono parole maledette. Cicerone ci ricorda che solo eloquentes e sapientes possono fermare le guerre”.
Quali parole salveranno il mondo?
“Ne indico nove, tre sono sostantivi. Pentecoste laica per intendersi parlando ciascuno la propria lingua, il contrario della Babele quotidiana. Poi fratello, un legame che va al di là del rapporto di sangue. Quindi contestazione, ovvero denunciare il male ad alta voce”.
Altre tre?
“Sono verbi latini. Interrogare, cioè porsi delle domande. Invenire che vuol dire scoprire e inventare. E infine intelligere che è capire”.
Le ultime?
“Tre avverbi: lentius, profundius e suavius anziché il motto olimpico citius, altius, fortius. Molto meglio più lento, più profondo, più dolce”.
Se c’è una soluzione, dove si trova?
“Chiesa, famiglia e partiti non sono più punti di riferimento nella società. Quando il discorso educativo di base viene a mancare, rimane solo la scuola. Gli insegnanti in trincea 24 ore su 24. Lo Stato deve metterli in condizione di operare al meglio”.
Come vede l’orizzonte?
“Sono disperatamente ottimista”.