Ma è una cosa seria o una trovata pubblicitaria, una dimostrazione di inclusività o l’apoteosi del narcisismo?
È lecito avere dubbi di fronte alla “sologamia”, l’idea di sposare se stessi, anzi, se stessə. In Italia circola da poco, negli Stati Uniti e in alcuni paesi orientali da parecchi anni, tanto che è stata messa in scena in diverse serie tv (in Glee a sposarsi era la temibile allenatrice Sue Sylvester, che certo non brillava per altruismo; in Sex and the City ci pensava l’eroina Carrie, e in un film di Ben Stiller del 2016, Zoolander 2, sposa se stessa la modella transgender All, interpretata da Benedict Cumberbatch).
Nel mondo reale esistono pacchetti vacanze per nozze sologame e “certificati” di sologamia, privi però di valore. Nessuno stato al mondo infatti dà status legale all’autosposalizio: quindi ognuno/a può organizzare la cerimonia come crede – usando la performance di Elena Ketra o in altro modo – e poi festeggiare come vuole e autocelebrarsi in solitudine o compagnia.
E cosa spinge alla sologamia? La prima ad autosposarsi sarebbe stata la statunitense Linda Barker nel 1993 con una festa con 45 invitati. In Italia nel 2017 la stampa riportava le autonozze di Laura Mesi, personal trainer che andò in luna di miele in Egitto. La prima in India nel 2022 è stata Kshama Bindu, 24 anni, nel Gujarat, che dava una buona ricetta: “scelgo uno stile di vita che mi aiuti a crescere e fiorire nella persona più viva e bella e felice che posso immaginare”. Sposare se stessi sarebbe insomma un modo per rinnovare ogni giorno un voto di fedeltà alla propria persona, per ricordarsi di amarsi, tutelarsi, incoraggiarsi.

Il fenomeno però può anche iscriversi nell’ondata di sfaccettature dei rapporti amorosi che caratterizza la nostra epoca: l’inclusività di genere che viene descritta dall’acronimo sempre crescente LGBT+, la ricchezza delle possibilità sessuali (etero omo bi o asessualità) la riscrittura delle famiglie che esce dal modello tradizionale mamma+papà+bimbi, e si allarga a poliamorosi, omogenitoriali, monogenitoriali, o alle “famiglie del cuore” come le definiva in Italia la scrittrice Michela Murgia, appena scomparsa e molto compianta. Se si può vivere con un gruppo di amici (che siano amanti o meno) si potrà anche scegliere di vivere solo con se stesse.
E infatti la sologamia, in larghissima parte fenomeno per donne benestanti di mezza età, assume anche una tinta nettamente femminista. Nel 2019, la giovanissima attrice Emma Watson diceva a Vogue: “non sono single, sono ‘self-partnered’”. Un cambio di terminologia che diventa cambio di paradigma. Una donna sola ancora fino a pochi decenni fa era una spinster, una zitella, una che non era riuscita a farsi sposare e magari sopravviveva solo grazie alla carità di qualche parente maschio; essere single, per una donna, lascia ancora planare il dubbio che non sia una scelta ma una condizione sofferta. Di fronte a un uomo single, purché non sia stato abbandonato dalla moglie e non sia un nerd senza speranza, si tende invece a pensare che stia bene come sta.
Sposare se stesse insomma può essere un modo per rovesciare le carte. Magari per indossare l’abito da sposa per chi ci tiene, e sentirsi al centro dell’attenzione nel ‘big day’; e la cosa bella è che se si cambia idea, non c’è bisogno di divorziare.
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