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April 27, 2022
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La “slow art” spiegata all’Istituto italiano di cultura a New York

Il direttore Fabio Finotti intervista Alain Elkann, presidente della Foundation for Italian Art and Culture. E difende le ragioni dell'arte itinerante

Michele Valle PerinibyMichele Valle Perini
La “slow art” spiegata all’Istituto italiano di cultura a New York

Alain Elkann e Fabio Finotti all'Istituto Italiano di Cultura a New York (Foto di Terry W. Sanders)

La “slow art” spiegata all’Istituto italiano di cultura a New York

Alain Elkann e Fabio Finotti all'Istituto Italiano di Cultura di New York / Terry W. Sanders

La “slow art” spiegata all’Istituto italiano di cultura a New York

Alain Elkann all'Istituto Italiano di Cultura a New York (Foto di Terry W. Sanders)

Time: 4 mins read

Con l’allentarsi della morsa del COVID-19 anche l’arte ha ripreso a viaggiare. Ma davvero c’è bisogno di spostare le opere d’arte, o non dovrebbero muoversi invece i visitatori dei musei?

Anche di questo si è parlato all’Istituto Italiano di Cultura di New York nella serata del 25 aprile, dedicata all’attività ormai quasi ventennale della FIAC (Foundation for Italian Art and Culture). Intervistato dal direttore dell’Istituto, Fabio Finotti, il presidente Alain Elkann ha parlato dei progetti passati e futuri della Fondazione e della visione che li ispira. Ovvero facilitare la conoscenza della cultura italiana promuovendo prestiti e scambi di opere d’arte.

La prima opera a volare dall’Italia negli USA è stata La Fornarina di Raffaello, che tra il 2004 e il 2005 ha lasciato la Galleria d’Arte Antica di Palazzo Barberini a Roma, con destinazione prima New York (Frick Collection), poi Houston e quindi Indianapolis (Indianapolis Museum of Art).

Raffaello Sanzio, La Fornarina (1520)

Hanno partecipato alla serata anche il chairman della FIAC, Daniele Bodini, e Massimo Osanna, direttore generale Musei presso il Ministero per i Beni e le Attività culturali e per il Turismo, premiato quest’anno col FIAC Excellency Award.

Tra il pubblico, altri curatori di importanti istituzioni museali, come Colin B. Bailey, direttore della Morgan Library & Museum a New York. E con loro giornalisti, diplomatici, restauratori. Tutto un mondo per cui l’arte non rappresenta un ornamento ma il centro stesso della vita. Proprio facendo riferimento a questo orizzonte, Elkann ha esordito, tessendo le lodi degli spazi misteriosi e miracolosi che l’arte riesce ad aprirci, veri rifugi del cuore e dello spirito.

Ma, per tornare alla domanda iniziale, davvero le opere d’arte devono viaggiare, o non sarebbe più saggio lasciarle dove si trovano, risparmiando soldi e garantendo meglio l’integrità di capolavori fragili, magari vecchi di secoli?

E invece no. La “de-localizzazione” dei dipinti ha più di una ragione. La prima – quando si tratti di singole opere – è toglierle dall’accumulo delle immagini che solitamente le contornano e le sommergono nei musei.

Come si parla di Slow Food, così Fabio Finotti ha parlato di “Slow Art”. Mostre concentrate attorno a singole opere interrompono la nostra corsa, evitano la deriva consumistica e bulimica per cui nei musei capita che secoli e autori vengono ingoiati e deglutiti nel giro di pochi minuti, in un raid forsennato da sala a sala. Elkann ha sottolineato la capacità di ritornare all’opera la sua natura di centro dell’attenzione, punto di partenza di un viaggio che si svolge almeno in parte dentro di noi.

Isolare un’opera e portarla altrove significa inoltre modificare il rapporto che una comunità ha con ciò che già possiede. Un quadro di Raffaello invita a guardare con altri occhi ad altri pittori rinascimentali. Dà un senso nuovo a cose viste da sempre. Rafforza attorno a sé l’identità del mondo in cui si sposta, animando incontri, discussioni, esperienze partecipate.

Raffaello, La Velata (1512-1515 ca.), Gli Uffizi, Firenze

E in una società in cui tutto sembra ridursi alla dimensione virtuale, l’opera che si muove e si espone alla nostra visione diretta ci costringe a fare di nuovo i conti con una percezione diretta dell’arte, meno smaterializzata: fatta di superfici reali, di spessori, di colori che non sono pure distese piatte ma possono ora raggrumarsi, ora assottigliarsi, ora cambiare a seconda del punto di vista.

Elkann ha anche sottolineato il fatto che le piccole mostre spesso si accompagnano a iniziative come il restauro delle opere o il loro studio critico. Invece di essere una ragione di degrado, proprio il viaggio garantisce la conservazione e la conoscenza dei capolavori che il tempo ci ha lasciato.

Già, il tempo. La globalizzazione rischia di appiattire tempo e spazio: stesse immagini, stessi spazi, stessi luoghi (o “non luoghi”) dovunque. Persino le città europee rischiano di trasformarsi in contenitori di mercatini aeroportuali, come il Fondaco dei Tedeschi a Venezia, orrendamente sfigurato dall’architetto olandese Rem Koolhaas.

Le opere che viaggiano per fortuna conservano il passato anche nella sua insuperabile distanza. Lo spazio si può annullare quando ce le troviamo vicine, eppure conservano una dimensione sconosciuta e misteriosa che si radica nella profondità dei secoli.

Venezia, Il Fondaco dei Tedeschi dopo il recente intervento

Il vero multiculturalismo non è a pappetta omogeneizzata di cui si nutrono molte università americane, ma proprio la questa riscoperta di quanto noi possiamo essere diversi da noi stessi: forme, volti, cenni della cultura occidentale di fronte ai quali il nostro sguardo perplesso continua a fermarsi domandandosi “che cosa avrà voluto dire o fare?”.

Nel dialogo tra Elkann e Finotti è emerso appunto questo fil rouge che lega la scelta delle opere di cui la FIAC ha patrocinato lo spostamento dall’Italia agli USA: l’attenzione verso figure isolate, portatrici di un senso enigmatico come quello che talora si ritrova nelle nature morte. Il silenzio le circonda come un’aureola o un velo, e qualche volta i gesti mantengono una strana ambiguità, tra la benedizione e il distanziamento.

Antonello da Messina, Annunciata di Palermo (1475), Palermo, Palazzo Abatellis. Il dipinto è stato portato dalla FIAC al Metropolitan Museum of Art di New York tra il 13 Dicembre, 2005 e il 4 Marzo 2006

Di fronte ad opere come quelle mobilitate dalla FIAC certe volte ci domandiamo se siamo noi a guardare loro, o se sono loro a guardarci da uno spazio simile a quello esplorato da Alice nel romanzo Attraverso lo specchio di Lewis Carrol. Lo spazio dal quale l’arte ci guarda e c’interroga di continuo su quel che siamo, e ancor di più su quel che potremmo essere.

Per questo il libro che la FIAC ha presentato in occasione di questo incontro (Italian Masterpieces, FIAC 2021) è un tesoro prezioso. Vi sono raccolte le immagini di tutte le opere che grazie alla Fondazione hanno viaggiato, accompagnate da schede dettagliate e introdotte da due contributi scientifici di grande livello, di Keith Chrstiansen e di Salvatore Settis, oltre a una lettera firmata da Daniele Bodini e Alain Elkann.

Alcune opere sono ben note, altre meno. Ma lo scopo della Fondazione è anche questo, trasformare il canone, allargare il campo di esperienza e di conoscenza dell’arte. Operare così un incontro che non è pura divulgazione, ma ha una componente importante di ricerca e di sperimentazione.

Anche il passato, dunque, può diventare vivo, mobile, e riservarci sorprese proprio quando credevamo di conoscerlo. Fantasmi sconosciuti si muovono dentro e fuori di noi, e sembrano parlarci chiedendoci di inventare le loro parole, i loro pensieri.

In definiva, nessuno rimane a sufficienza di fronte a un dipinto se non diventa in parte complice del pittore. Se non risponde alle parole non dette e non scritte che animano la pittura, così come i nostri sogni più vivi.

Giorgione, Vecchia (1506 ca.), Gallerie dell’Accademia, Venezia. Il dipinto è stato portato dalla FIAC prima al Cincinnati Art Museum (Ohio), poi al Wadsworth Atheneum di Hartford (Connecticut) nel 2019
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Michele Valle Perini

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