È una strana storia, non c’è dubbio. Da una parte c’è Gaetano Pesce, artista e designer di 81 anni, molti dei quali trascorsi a New York, e la sua scultura “Maestà sofferente” alta otto metri e pesante quattro tonnellate. Dall’altra molte donne, non solo femministe old style e giovani arrabbiate, che insorgono dovunque la si esponga perché avvertono che quel monumento è un’offesa alla figura femminile. Lui si difende dicendo che il suo è un atto di denuncia, che ha pensato l’opera per accendere un faro sulla condizione in cui le donne sono ancora oggi costrette a vivere, a lavorare e troppo spesso a morire, per colpa di uomini violenti. Loro leggono invece un significato opposto, dicono che quella statua “reifica” la condizione della donna. In mezzo c’è una città, Ferrara, e tante persone che di questi tempi possono al massimo fare un’uscitina al parco con la mascherina. E qui, dove è stata collocata la gigantesca statua per volere di Vittorio Sgarbi e del Comune, la gente si mette in coda per guardarla, sorridere e condividere, neanche a dirlo, un selfie.
Torno indietro un attimo sul verbo “reificare” perché oltre ai tremila vocaboli che normalmente usiamo per definire, smistare e liquidare i rapporti quotidiani con cose e persone, ce ne sono almeno altrettanti che utilizziamo molto raramente. E questo è uno. Reificare cosa significa? Se le parole sono importanti, come urlava Nanni Moretti in “Palombella Rossa”, in termini di pura logica questo verbo esprime la fallace operazione di considerare reale un’astrazione. Mica facile detta così, è come pensare di essere tutti vaccinati entro tre giorni. Nel linguaggio strettamente marxista invece – cito Wikipedia – l’accusa è molto più stringente, ovvero far diventare una cosa oggetto. Tradotto: qui è la donna che diventa oggetto. L’idea dell’universo femminile, manifestata attraverso il suo corpo, nel monumento di Gaetano Pesce diventa oggetto e quindi ecco il monumento alla donna oggetto. Sua Maestà è servita.
Il significato voluto dall’artista alla prima occhiata sembra slittare, alla seconda sbanda e infine pattina sulla corsia opposta come una macchina sul ghiaccio con il freno a mano tirato. A chi dobbiamo credere? Come si è arrivati a questo cortocircuito comunicativo? E’ il momento di entrare nel merito. La descrizione dell’opera ci fa dire che siamo in presenza di un gigantesco donnone senza testa né braccia né gambe, con forme femminili da Venere di Willendorf o di boteriana memoria, trafitta da tante frecce lillipuziane come un San Sebastiano, per di più incatenata a terra da una palla di piombo. Il titolo “Maestà sofferente” non viene evidentemente considerato un lenitivo (o meglio un’attenuante), laddove con Maestà si richiama l’omaggio alla Vergine Maria nelle pale d’altare di Cimabue mentre l’aggettivo invita ad approcciare l’opera con espressione pensierosa.

Proviamo a guardare a cosa c’era prima di quel monumento, ovvero a quella poltrona che se il termine non fosse così inutilmente abusato (vedi ancora Nanni Moretti) verrebbe da chiamare icona. Gaetano Pesce, attivo negli anni Sessanta nel “Gruppo N” di Padova con Mario Massironi e Alberto Biasi, a 28 anni progetta una poltrona Pop per la C&B (Cassina e Busnelli, poi diventata B&B con l’uscita del primo socio). La chiama UP 5 (la poltrona) e UP6 (il pouf, palla al piede). E’ evidente che anche allora il messaggio è di denuncia, siamo lontani dalle nostalgiche raffigurazioni dei “poltrobabbi” e dalle “poltromamme” di Alberto Savinio, il fratello di Giorgio De Chirico, e con l’aria che tira in quegli anni, con le femministe vere in strada con i palmi delle mani all’insù, uno si aspetterebbe vetrine infrante e roghi in strada. Invece non si ha memoria neanche di crocicchi agli incroci.
Le contestazioni arrivano in questi giorni a Ferrara dove Sgarbi, in modo volutamente provocatorio ha inaugurato l’opera di Pesce l’otto marzo, giorno della festa della donna. Perché come sappiamo lui nelle critiche ci sguazza, e se non arrivano spontaneamente le crea. La stessa situazione di era verificata a Milano due anni fa, quando la “Maestà” di Pesce collocata in piazza Duomo finì sommersa da cori di proteste. In quei giorni intervistai Pesce nel giardino di un albergo chic dietro via Montenapoleone e ricordo la sua espressione tra lo stupito e il disgustato (anche per colpa del vassoio di tonno crudo in tranci da tre etti l’uno che un solerte maître aveva fatto portare a sua insaputa, forse in omaggio al cognome). Ripeteva allora che non capiva le critiche, che il messaggio era proprio l’opposto. Ma niente, finito il Salone del Mobile la statua venne tolta dalla piazza e parcheggiata in qualche hangar per poi fare la sua ricomparsa nella città estense.
A distanza di 51 anni dal lancio della poltrona, Gaetano Pesce continua serenamente a proporre la sua chiave di lettura. Allora il messaggio di denuncia della condizione della donna entrava nelle case sotto forma di poliuretano espanso, arrivava sottovuoto e prendeva forma in salotto qualche ora dopo. Oggi per l’artista il messaggio è rimasto lo stesso, è cambiata solo la scala delle dimensioni, dalla poltrona al monumento. “Allora decisi di parlare del grave problema sociale che affligge metà della popolazione del mondo con un oggetto utile”, spiega Pesce. “Purtroppo, dopo 51 anni, la donna è ancora perseguitata in molti Paesi. In altri è trattata come essere inferiore e, salvo qualche esempio, non le è riconosciuta la libertà di cui dispone l’uomo. E le frecce che riceve ogni giorno sono martelli, lame, acidi, pietre o proiettili”.