Da sempre si è manifestato nelle società organizzate il bipolarismo dell’epifania, la manifestazione dell’essere fra gli altri e diversi dagli altri.
Già dagli Egiziani il faraone si manifestava attraverso uno svelamento della sua identificazione, come divinità che si zoomorfizzava attraverso teste di animali, a seconda della immagine che voleva trasmettere di sé. E a seguire nella società greca e poi latina le classi sociali, o più strettamente le caste, trovavano nella veste la loro distinzione, il loro modo di essere ed apparire. Una toga semplice si distingueva dal laticlavio orlato di porpora. La regola generale della diversità in tutte le epoche preistoriche e storiche si è espressa nelle uniformi dei soldati. E qui era logica l’esigenza di distinguersi dal nemico da uccidere.
Tralasciando tutte le classificazioni greche o orientali, nella società italiana del medioevo e del Rinascimento l’abbigliamento era ancora un modo di distinzione sociale. Tra la nobiltà europea del Settecento noto a tutti l’uso delle parrucche incipriate o delle culottes, i tipici pantaloni sotto il ginocchio, che in termini rivoluzionari furono demonizzate dal costume dei sanculotti (sans-culottes).
Mi viene da sorridere, quando vedo nelle grandi occasioni la vecchia regina Elisabetta II e il suo giallo o verde o rosa scioccante dei vestiti o i cappellini con fiori e piume. Alla sua veneranda età. Eppure ancora in tutto l’occidente i religiosi adottano esclusivi paramenti sacri che vogliono ribadire l’antichità primitiva della sacralità.
Peccato che la religione cattolica ha reso facoltativo l’abito talare e ha introdotto il prosaico e profano linguaggio quotidiano al posto del misticismo del latino. I carmina sacrali in latino arcaico restarono in uso per secoli. Certo l’abito non fa il monaco, dice la sapienza popolare, però distingue uomo da uomo. Tanto che oggi in tempo di Covid qualcuno ha pensato di oltraggiare la bandiera tricolore indossandola come raccoglitrice di virus. Il nazionalismo che deturpa ed oltraggia il simbolo alto della Repubblica.
Questa è la società: c’è chi vuole togliere la simbologia e la distinzione che sono metafora dell’essere in una specifica funzione e chi invece li mantiene ad oltranza. Penso alle toghe degli avvocati, spesso buttate sconciamente sulle spalle, oppure a copricapo e toghe dei magistrati, di ogni ordine, fino agli amministrativi, o agli ermellini delle eccellenze. Qualche suorina mantiene il tipico velo, difficile distinguere le altre se non dal vestito dimesso.
In tutto questo apparire o celarsi, il colpo finale lo hanno dato i social e soprattutto quello che si identifica con la “faccia”, l’universale miliardario Facebook. Oggi il vestito non è separazione di classi, ma semplice camuffamento ludico.
Per di più, in questa mania dell’apparire, i termini sono stravolti nella volontà di strabiliare, norme lo straordinario e lo strano, quello che fa sgranare gli occhi e stupire, lo shock è diventata prerogativa dell’immagine da dare ad altri. Lo straniamento di sé. E questa brama dell’apparire strabiliando ha stravolto la società. Non conta più l’interiorità, quella che veniva definita cultura ed intelletto, l’anima profonda. Non sono più le doti e le qualità, ma l’apparire. Così fu liquidato il Rinascimento con il marinismo, così il classicismo dell’età di Pericle con l’alessandrinismo del pathos e del sorprendente del Galata morente e dei versi ad ala, l’età della bellezza con le degenerazioni del pathos dell’orrido o dello strano, perché suscitassero stupore e mirabilia.
Oggi a rappresentare egregiamente, come metafora e simbolo della presente umanità perduta nel vacuo e nel kitsch, l’avvenimento più emblematico della nostra Italietta delle canzonette, quel Sanremo che dal 1951 con qualche pausa ha rappresentato il costume popolare dell’Italia, dall’uscita dalla tragedia della guerra al boom economico attraverso le metamorfosi e le evoluzioni del costume popolare, antesignana la minigonna.
L’ultima manifestazione del 2021 ci dona l’immagine indelebile e chiarissima del nostro tempo, quello dell’esplosione di Facebook, ma anche dalla scomparsa della cultura in una scuola burocratizzata e volta ad acquisire una professionalità, il diplomificio, una scuola diversa da quella che abbiamo vissuta e donata come formazione globale del giovane, incentivazione degli strumenti perché il giovane sapesse leggere e interpretare tutta l’attività umana, strumento quindi di formazione e apprendimento, di metodo per qualsiasi sapienza, sapere leggere e scrivere perduti o l’acquisizione di un ethos personale, un carattere.
Questo Festival, anche se con numeri di ascolto inferiori, manifesta in modo eclatante nella sua ormai collaudata formula l’essenza, il paradigma della mentalità e delle esigenze popolari odierne.
È la vittoria dello strabiliante, nelle sue forme complesse dello splendore e dell’horror, del trash, il tutto rappresentato da maschere, dico il tutto senza alcuna eccezione. Figuriamoci l’Orietta Berti di 29 anni fa vestita con un caftano rutilante e chioma ispida, alla stregua delle mostruosità di quasi tutti. Il kitsch come emblema, ma anche il mascheramento. Lo spettacolo ha le sue leggi e quella sala vuota con mascherine di palloncini, quell’orrida bocca di caverna primitiva nella moderna tecnologia di acciaio, da cui scendono i manichini travestiti fra le luci rutilanti. Ad aprire le danze un Fiorello coperto da una palandrana di fiori finti che lascia basito ed ebete lo stesso compagno di cabaret Amadeus. Ma se ha voluto rappresentare così il suo nome, altre metamorfosi sono seguite come quella in pelliccia nera, di lupo orango toro belzebù?
Così tutta una sequela di camuffamenti, incipriate e tattoo delle più oscure e brillanti specie. I campioni di questa straordinaria annata si sono già prenotati per la terza performance il prossimo anno. Tutto è stato giocata sulla maschera, sull’apparire, È la sfida al camuffamento. Non l’essere, ma l’apparire. La maschera che purtroppo questa volta non era nuda, mancava dell’ironia, voleva essere pretestuosa e al di sopra delle righe. Tu eri quello che lustrini, colori fulminanti, rimmel e matita per gli occhi e rossetto e smalto per le unghie per tutti, uomini e donne, volevano rappresentare.
E scusate, la musica, il canto? Spesso i soliti urli fino allo scoppio delle tempie o in antitesi la parola soffiata e sospirata, il tweet, il cinguettio o il fruscio di un’ala. Tutte le forme di rock, dal dolce all’hard, che alla fine diventava una stantia e uniforme kermesse in cui la varietà diventava Orietta Berti inossidabile, ma pure lei in tenuta da cabaret, nell’ossessione del look, ove il canto era un semplice secondario ingrediente, secondo il comando del capitano di bordo, che era il vero protagonista delle serate, accanto ad uno sbalordito e ridente Amadeus, la spalla.
Il clou delle serate la solenne premiazione come di costume in tutti i festival e le serate canore. E la somma di tutte le parate, la più strabiliante e sex, il velo similpelle di un complesso di quattro campioni dal nome strano formato da Damiano David, Victoria De Angelis, Thomas Raggi ed Ethan Torchio
La band rock romana dei Maneskin, che nel danese della bassista Victoria significa “chiaro di luna”.
L’argomento della canzone si dichiara nel titolo, ma meglio viene qualificata dalla dedica: “Dedichiamo questa vittoria a quel prof che ci diceva sempre di stare zitti e buoni. Firmato Maneskin, Zitti e buoni”. In una intervista il più agguerrito Damiano dichiara e ne fa quasi un vanto dell’attesa di una terza bocciatura: “Non tornerò tra i banchi. Lo dico con senso di grandissima rivincita. Per anni mi sono sentito dire non dovevo pensare alla musica, impegnarmi in qualcosa di serio ed essere responsabile”. Ma su altro quotidiano dichiara: “A scuola? Io torno, ma per fare il figo. Io in teoria, ma molto in teoria, avrei dovuto finirla. Ho vissuto la scuola male. Sentirmi dire quello che dovevo fare e non poter esprimere la mia intelligenza. Se non sei scolasticamente intelligente non vuol dire che non lo sei”. E continua sul tema: “Bocciato a scuola? Tornerò per fare il figo. Giro per Roma con la pelliccia di leopardo”.
Se quel “zitto e buoni” del prof padrone può spianare la strada alla vittoria di Sanremo, direi che ben vengano simili prof. E il nostro sfigato avrebbe di che ringraziarli. Se avesse avuto prof che lo incitavano alla vita hippy, secondo il teorema non sarebbe arrivato neppure alla discoteca del quartiere- Ma certo non si tratta di questo. La sua sfida alla scuola e la sua vittoria attribuita alla scuola è in effetti una sconfitta di questa scuola che si è andata configurando da un decennio e più. Quella didattica dell’inutile e quell’incapacità di guardarsi negli occhi, di comunicare lo stupore della cultura e della sapienza. La scuola divenuta obbligo è divenuta costrizione ed è vissuta come un carcere. Colpa massima della società che ha abolito il sacrificio, dei genitori che hanno delegato e abbandonato i figli, che hanno accettato la colpevolizzazione dei prof invece di intavolare un dialogo e una collaborazione fattiva per la formazione dei loro figli. Ora il colpo finale è inferto dalla DAD, la didattica a distanza, che ha cancellato l’esperienza costruttiva della socializzazione, l’essere compagni. E plus ultra? Cosa ci aspetta? To be or not to be?