
Eccentrico, sopra le righe, “uno strano” come lo chiamavano i suoi coetanei da bambino in Sicilia. Impossibile non notare Sergio Furnari, l’artista siciliano che a New York gira con il suo pick-up sovrastato da undici operai in terracotta.
Per realizzare questa opera, Sergio si è ispirato all’iconica foto di Charles C. Ebbets “Lunch atop a skyscraper”, che ritrae undici operai sospesi in una trave di acciaio in cima ad un grattacielo mentre consumano il pranzo durante i lavori di costruzione del Rockfeller Center.
Da Caltagirone, la città di Luigi Sturzo e delle ceramiche, Sergio Furnari parte in direzione transatlantica. A muoverlo è la curiosità e l’insoddisfazione in Sicilia.
Si fa conoscere per il suo stile che richiama con originalità il motivo dell’arte calatina. Duro lavoro e sacrificio in una New York, quella degli anni novanta, dove l’umanità regolava ancora i rapporti e i social erano incontri, scambi di idee.
Ad apprezzare le sue opere di terracotta sono molti personaggi famosi, tra i quali Robert De Niro e Celine Dion, per la quale Sergio realizza una panca. Oggi l’artista siciliano, americano di adozione, vive ad Astoria, nel Queens, e gira l’America con il suo pick up e il mondo con la sua arte che affonda le radici nella sua Isola.
Alla ricerca di nuovi orizzonti e con un sogno nel cassetto: realizzare la piscina più grande del mondo.
Non una semplice “vasca” dove farsi un bagno ma una struttura decorata che ti dia la sensazione di essere immersi in un’opera d’arte”.
Quando eri piccolo tu chiamavano “l’americano” per via dei tuoi capelli biondi e gli occhi verdi. Cronaca di un destino preannunciato?
“Già a quattro anni disegnavo i grattacieli della Grande Mela, presagio di un destino inevitabile e mi chiamavano l’ “americano” anche per via del mio carattere eccentrico, fuori dalle righe. Ero uno già “strano” a detta di molti miei concittadini perchè visionario rispetto ai tempi. Parliamo della Sicilia degli anni Settanta”.
Tutto inizia a Caltagirone, la città di Luigi Sturzo e della ceramica dove tu sei nato e cresciuto prima di arrivare oltreoceano.
“Caltagirone mi ha formato, sono debitore nei confronti della mia città per avermi fatto amare l’arte. Avevo sei anni è già realizzavo cestini di frutta, acquesantiere in terracotta, pupi, L’arte ha sempre fatto parte della mia vita e per me era qualcosa di naturale e spontaneo. Disegnavo, creavo sculture, vasi, anfore, con la consapevolezza di chi lo fa come qualcosa di inevitabile. L’alternativa, se l’arte non mi avesse rapito, sarebbe stata quella di lavorare in campagna”.
Hai frequentato l’istituto d’arte e un laboratorio di ceramiche a Caltagirone, prima di aprirne uno tutto tuo a vent’anni.
“Ero ambizioso e sentivo che già la Sicilia mi stava stretta. Avevo fatto tutto quello che c’era da fare a livello artistico. Avvertivo però di aver toccato un punto oltre il quale era impossibile andare, crescere. Mi sono sempre sentito diverso nella mia terra perchè ho sempre avuto un modo di pensare che anni fa era inconcepibile e troppo rivoluzionario. Il salto è grande e, dalla città delle ceramiche, arrivo in Pennsylvania, prima destinazione oltreoceano“.
A New York arrivi negli anni Novanta e cominci con il realizzare quadri, insegne per ristoranti e locali, nello stile tipico delle ceramiche di Caltagirone. Come era la New York di allora?
“Andavo porta a porta a bussare nei singoli ristoranti a proporre il mio lavoro. Allora non esistevano i social media e il contatto umano era importante. Gli americani cominciarono ad apprezzare il mio stile, per loro unico e nuovo e aumentavano i clienti che mi chiedevano dei lavori artistici. Era una New York piena di grande energia e umanità. Il contatto avveniva con gli incontri, gli scambi di idee, la gente si fermava a parlare con te, erano tutti curiosi. Una città incredibile”.

E’ la famosa opera in terracotta, che si ispira all’iconica foto di Charles C. Ebbets “Lunch atop a skyscraper” che ti fa conoscere nelle pagine dei quotidiani americani, a partire dal New York Times. Un’opera artistica ma soprattutto ideologica.
“Ho rivisto quell’immagine in una vetrina della Fifth Avenue mentre camminavo per le strade di New York e mi ha ricordato il sacrificio fisico di chi ha costruito New York venendo dall’Europa. Erano immigrati come me. Ho deciso allora di rendere omaggio a quell’idea, a quel sacrificio valido in ogni tempo, con una vera e propria scultura mobile che riproduce gli undici operai in misura reale in terracotta, cemento, fibre di vetro e metallo” .
“Lunchtime on a Skyscraper-A Tribute to America’s Heroes”, questa famosa tua scultura che ritrae undici operai, è stata completata qualche settimana prima dell’11 settembre 2001, e dopo quella data ha assunto un valore simbolico importante.
“Le torri gemelle sono state costruite dagli operai che non hanno una storia diversa dai celebri “ironworkers” ritratti nella foto. Ho deciso di celebrare quel sacrificio esponendo la mia scultura mobile per cinque mesi a Ground Zero nel 2002. Il significato è doppio: la storia dell’emigrazione legata alla sofferenza, la costruzione di una grande e gloriosa città dalla fatica del lavoro e del sacrificio. Dopo aver montato la scultura mobile su una trave trasportata da un pick-up, ho guidato per gli Stati Uniti e ancora oggi potete vedermi per le strade di New York con il mio camioncino sovrastrato dagli undici operai di terracotta, sicuro del fatto che un’opera di queste dimensione ha un impatto notevole anche in una città caotica e iperstimolante come New York”.
Tra i tanti che hanno comprato la scultura anche Robert De Niro mentre hai realizzato una panca per Celine Dion. Ma come sei sopravvissuto, da artista, alla crisi di New York?
“Ho realizzato centinaia di sculture in tutte le misure. Le ho vendute a clienti di tutto il mondo, gente che per strada mi fermava chiedendomi anche una sola statua di quegli operai. Robert de Niro ne ha voluto una. Che ben vengano le crisi se servono a dare stimoli nuovi ma oggi è più difficile fare soldi in un mondo dove le relazioni umane sono diventate virtuali e dove, per via dei social media e internet, siamo sovraesposti ad una eccessiva quantità di informazione e offerta”.
Reinventarsi è per te importante e in questi ultimi anni, pur rimanendo fedele alla tua arte, ti stai confrontando con un progetto legato alle piscine che coniuga arte e ridefinizione dello spazio.
“Nel mio ultimo progetto, legato alla realizzazione delle piscine, stravolgo la semplice idea funzionale di una swimming pool, trasformandola in un’opera artistica completa che vuole essere esperienza anche esensoriale oltre che visiva. Ho realizzato la mia prima piscina nel 1997 per un mio cliente in Florida. Non una semplice “vasca” dove farsi un bagno ma una struttura decorata che ti dia la sensazione di essere immersi in un’opera d’arte”.

Ancora alla piscina è legato il sogno di Sergio Furnari: realizzare la più grande al mondo.
“Per ora è un rendering che attende solo qualcuno pronto a sposare il mio progetto. Si tratta di una città nella città, circondata da agrumeti, alberi, con al centro una grande piscina tutta dipinta a mano che riprende le decorazioni delle ceramiche siciliane, con il blu, il giallo e il verde a dominare. Il luogo ideale per realizzarla? La Florida ma anche i paesi della penisola araba, e perchè no la Sicilia”.
Con l’Isola hai un rapporto conflittuale. Quando sei andato via sei quasi scappato non lasciandoti dietro nulla. Amarezza, delusione, forse?
“Il punto è che in Sicilia gli artisti non godono di autonomia intellettuale. Gli artigiani in Sicilia non sono liberi e vivono in una società dove alcune regole diventano codici di vita limitanti e limitativi. In America, non solo ho imparato diverse tecniche di sperimentazione nei colori e nei materiali ma anche il senso della libertà di espressione, che per me significa da come ti vesti al lavoro che fai. Il senso di oppressione anche sociale in Sicilia non ti permette di volare in alto come uomo e come professionista. Rimanere ancorato alle tradizioni a volte significa non evolversi. La Sicilia è però una dimensione dell’anima al punto tale che, anche se scappi, lei non ti lascia mai. Così, la ritrovo nella mia arte, nel senso estetico, nella bellezza dei pupi calatini ai quali sono legato. Bisognava però azzerare tutto per ricominciare”.
Sergio sei anche legato al Guatemala, un paese di cui ama la gente e i colori e di recente sei stato in Brunei. Cosa pensi di quest’ultimo paese che è noto alla cronaca per il mancato rispetto dei diritti umani?
“Quello che posso dire è che ho trovato un popolo gentilissimo e amorevole, sempre con il sorriso in bocca e pronto ad accoglierti e aiutarti”.
Molti artisti sono andati via da New York. Chi resta, a cosa va incontro?
“In America non basta essere un bravo artista ma devi avere anche nozioni di marketing e pubbliche relazioni, se vuoi farti conoscere. L’arte è anche un business e non dobbiamo avere paura di dirlo. Non nego che oggi a New York è tutto cosi difficile e complicate soprattutto per noi artisti. Prima c’erano più possibilità di incontro, di lavoro, oggi tutto avviene tramite i social. E’ tutto molto di plastica, finto. Io resisto ogni giorno con il duro lavoro, inventandomi sempre qualcosa di diverso ma non escludo di esplorare nuovi orizzonti”.

Hai mai pensato di fare qualcosa per la tua terra, la Sicilia?
“E chissà se non torno in Sicilia, magari per realizzare questo mio progetto della piscina più grande al mondo decorata a mano, circondata dagli aranceti e limoneti siciliani. Vale il detto nemo propheta in patria ma ammetto che sarebbe un sogno poter ritornare nella mia terra per riconciliarmi, portare le mie figlie, il mio lavoro e gettare i semi per un futuro rientro”.
Che rapporto hai avuto in questi anni con la comunità italiana a NY?
“Purtroppo non ho mai avuto nessun contatto o pochissimi contatti umani ma nessuno, a livello istituzionale, ha mostrato riconoscimento nei confronti del mio lavoro. Mi piacerebbe che la comunità italiana e italo-americana supportasse il mio prossimo progetto: la realizzazione degli undici lavoratori in acciaio inossidabile a Central Park. Una sorta di memorial che celebri il sacrificio e il contributo degli italiani a New York. Mi sento come un nemo propheta in patria. Spero che questo risentimento possa un giorno trasformarsi in collaborazione”.