
Nel 1973, durante un periodo di temporanea cecità trascorso a Roma tra la Clinica Oculistica diretta dal Prof. Bietti e la sua abitazione, Villa Strhol-Fern, lo scrittore e pittore Carlo Levi (Torino 1902-Roma 1975) produsse 145 disegni. Anni dopo la sua scomparsa, queste opere d’arte furono ritrovate e comprate da Antonino Milicia, contadino siciliano emigrante che aveva conosciuto Levi in Svizzera. Alla Casa Italiana Zerilli Marimò della New York University diretta da Stefano Albertini, martedì scorso si è aperta la mostra “Blind Visions”, che fino al 13 dicembre fa ammirare 42 di questi disegni mai mostrati fuori dai confini d’Italia. La mostra, curata da Nino Sottile Zumbo, ha visto all’inaugurazione avvenuta martedì 10 settembre anche la partecipazione di Milicia, che abbiamo incontrato il giorno dopo alla Casa Italiana. Con lui accanto, abbiamo conversato via computer anche con il Prof. Gian Paolo Berto, pittore e tra gli allievi prediletti di Levi e che lo assistette durante il periodo della cecità.

L’artista Berto ci parla da Roma, dove in questi anni ha insegnato incisione all’Accademia delle Belle Arti. Nel 1973, era con Levi praticamente ogni giorno durante il suo ricovero alla clinica oculistica San Domenico. Qui Levi eseguì a pennarelli, con tratti monocromi e volute di colore, quasi tutti i 145 disegni su carta. Alla Casa Italiana sono esposti 42 disegni tra i più suggestivi (cinque sono inediti).
Berto ci dice: “Ora le racconto come nascono questi disegni. Eravamo stati a cena a Roma, con Carlo Levi c’erano Linuccia Saba, Renato Guttuso, Marino Mazzacurati, e altri amici. Venuta la mezzanotte, Carlo Levi mi fa: ‘Mi sembra che nevica… Vedo delle strane cose’. Telefonai al medico: ‘il maestro è uscito dal ristorante e gli sembrava che nevicasse. C’è qualche problema? ‘Bisogna farlo vedere subito dall’oculista…’. Arriva il Prof. Stirpe, allora giovane medico, ora primario. Così lo portammo alla clinica San Domenico. Linuccia Saba mi chiamò per avvertirmi che bisognava organizzare qualcosa per Carlo durante la sua degenza. Così io gli leggevo i giornali. Levi dopo un po’ mi raccontò che Gabriele D’Annunzio aveva avuto lo stesso problema, e che durante la degenza, scrisse ‘Il notturno’… Levi mi chiede un quaderno con delle righe tenute da un fil di ferro, in modo che potesse scrivere seguendo i margini… Allora con il falegname Tonino Lo Noce abbiamo costruito questa tavoletta che si apriva, si entrava il quaderno e c’erano dei fili di ferro come righe. Poi io comprai una matita a grafite grossa e così lui cominciò a scrivere. Tutti i giorni io stavo lì mentre lui scriveva, e così nacque Quaderno a cancelli, che è un capolavoro che io consiglio a tutti voi di leggere.”

A questo punto Berto continua con i suoi ricordi: “Mentre scriveva, Levi mi disse: potrei fare anche dei disegni. E io gli risposi: certo maestro. E allora organizzammo un’altra tavoletta, lui mettendo la mano sentiva lo spazio, e poi faceva dei disegni che ora vedete esposti alla NYU. Io gli compravo i pennarelli, e avevamo fatto un piccolo laboratorio nella clinica San Domenico”.
Levi così disegnerà ogni giorno, “alle volte anche cinque sei disegni al giorno, dei giorni neanche uno”. Per Berto, “quei disegni sono la testimonianza che si può continuare a lavorare anche sotto gravi difficoltà”.
Quando chiediamo a Berto cosa pensò Levi dei suoi disegni dopo aver riacquistato la vista, ecco la sorprendente risposta: “Lui non li rivide mai. Mi aveva fatto scrivere sotto ogni disegno la storia di cosa significassero. E io la scrissi sotto ogni disegno”.
Qui interviene Antonino Milicia: “Sì, su 80 disegni c’è la descrizione. Ma non su tutti”.
Chiediamo: quindi Carlo Levi non chiede di rivedere i disegni che intanto Linuccia Saba aveva portato via? “Già”, dice Berto, “lui era andato oltre ormai”.
Tornado a quando Levi disegnava in ospedale, chiediamo cosa lo ispirasse: “Ma noi parlavamo di tutto, e lui disegnava e comunque lui in realtà, che non vedeva, vedeva di più e meglio di chi vedeva”.

Chiediamo a Berto se trovi normale che in Italia per salvare un patrimonio artistico come i disegni di Carlo Levi durante la sua cecità, sia dovuto intervenire un contadino siciliano già emigrato in Svizzera che li compra e li conserva per anni nel suo fienile… Un miracolo? Ecco la risposta del Prof. Berto: “Non c’è nessuna spiegazione per questa storia. In realtà esiste un karma. Era giusto che questi disegni li avesse Antonino Milicia. Tutto lì. Quanto accaduto era stato già scritto dal destino. Siamo legati tutti ad un destino già preparato”. Quindi secondo lei, quando Levi disegnava questi disegni, sperava già che la loro storia sarebbe stata quella che poi è stata? “Certo! Lui non avrebbe scritto Le parole sono pietre, Il futuro ha un cuore antico, Tutto il miele è finito e Quaderno a cancelli, se non avesse pensato a questo”.
Questi disegni, recuperati dal contadino-emigrante siciliano Nino Milicia, e che ora arrivano a New York per essere esposti alla Casa Italiana della NYU, nella città dove Levi era stato, ecco tutto questo era un destino già prestabilito? “Certo. Ora vi do un consiglio: organizzate a New York una conferenza invitando medici oculisti, per fargli vedere quei disegni della cecità di Levi, dite loro che sono stati fatti da uno scrittore-intellettuale-pittore italiano da cieco e fateglieli spiegare. Potrebbe essere interessante per capire la possibilità di aiutare altre persone”.
A questo punto chiediamo il proseguimento di questa straordinaria storia ad Antonino Milicia, che ci racconta l’emozione della serata di inaugurazione della mostra: “Ero emozionato, avrei voluto dire di più e non sono sicuro di essere riuscito a dire quello che volevo. Mi hanno emozionato molto le parole del Prof. Stanislao Pugliese, di quanto ha fatto capire delle sofferenze subite durante il fascismo. Ma anche quando ha parlato di noi emigranti, di quando ha detto di come Levi affrontasse la questione meridionale. Noi a Zurigo venivamo trattati come cani, umiliati, presi a calci”.
È lì, proprio in Svizzera, che Antonino ha il fatidico incontro con Levi: “Ero arrivato nel gennaio del ’68. Non sapevo la lingua, nulla. Un giorno altri emigranti mi dicono che si doveva andare alla stazione ad accogliere lo scrittore Carlo Levi, che veniva a Zurigo per aiutare ad organizzarci. Fu un colpo di fulmine. Io non sapevo neanche chi fosse Levi, e da quella volta ne rimasi impressionato. Lui era lì per un convegno ma trascorse del tempo con noi, alla Casa Italia. Da quel momento io l’ho avuto come punto di riferimento. Io mi vergognavo perché non ero istruito, non avevo voluto studiare. Ma Levi mi disse; ‘Cerca di essere sempre te stesso e non farti calpestare la libertà che hai’. Cioè lui voleva che io fossi integro, quello che ero, in tutte le cose. Non farsi calpestare la libertà. Non lo diceva solo a me, a tutti. Era emozionante. Parlava da uomo a uomo, e ci dava forza e dignità”.
Poi il destino di salvare quei disegni di Levi fatti qualche anno dopo, durante la sua cecità. Come avvenne? “Succede che mia sorella si doveva fare la casa e io l’aiutavo. Ad un certo punto dovevamo avere una scultura per un angolo. E venni a sapere di un’opera di Levi in vendita. Corsi subito a Roma per andarla a comprare. Faccio amicizia con Lionello Giorni (marito di Linuccia Saba, amante di Levi, che eredita i disegni ndr) e gli cucino del pesce che gli portavo dalla Sicilia. Lui dà cinque stelle alle mie qualità di cuoco e diventiamo amici. E alla fine lui mi mostra i disegni. Mi dirà che li aveva fatti vedere e che gli avevano detto che non era roba vendibile. Ma invece io capisco subito che hanno un grande valore storico. Altro che scarabocchi!”.

Antonino ci porta in giro alla Casa Italiana e ancora una volta si commuove nel guardare e descrivere quei disegni che lui comprò salvandoli. Gli chiediamo: sei felice che siano qui in mostra a New York? risponde: “Sono contento perché sono stati gli americani a scoprire Levi, con Cristo si è fermato a Eboli. Carlo Levi era troppo scomodo in Italia. Sono felice che siano gli americani a conoscere per primi, fuori dall’Italia, questi lavori. Sono lavori che sensibilizzano all’amore verso l’Italia, cosa che non hanno gli stessi italiani. E infatti Carlo Levi cosa ci dice, e mi sento emozionato nel dirlo: siete voi emigranti che portate il peso della croce, voi scarti dell’Italia. Lui vede gli scarti dell’Italia negli italiani all’estero, che sono esiliati come è stato lui in Lucania. Ci tengo a precisarlo, lui ci ha dato tanta forza all’epoca per lottare e andare avanti”.

Come ci ha detto l’avvocato Nino Sottile Zumbo, il curatore della mostra che a sua volta “scopre” la storia di Antonino Milicia e lo porta a New York, “i disegni, piccoli capolavori figurativi e astratti, raccontano per immagini – che affiorano dal profondo – il periodo buio della cecità e il vissuto dell’artista. Ne fanno parte: gli autoritratti dolci e amari; i volti delle persone care e i luoghi amati; le figure e i simboli che interpretano la sua visione delle cose. I disegni della cecità sono interpretati da Levi nel suo romanzo autobiografico Quaderno a cancelli, scritto sempre negli anni bui del 1973 e pubblicato postumo dall’editore Einaudi nel 1979”.
Aggiunge sempre Sottile Zumbo: “Levi denominò ‘quaderno a cancelli’ un particolare strumento da lui progettato durante il periodo della cecità: un quaderno in legno in due parti, unite a cerniera, munito da cordicelle che lo sezionavano, per guidare la sua mano sì da riuscire a disegnare e scrivere”.
E poi conclude: “Levi ripeteva: con la pittura vado indagando me stesso, con la scrittura il mondo. Quali sono i maggiori insegnamenti di Carlo Levi sulle arti? L’opera d’arte non è qualcosa da ammirare ma un’esperienza da vivere; si può veder bene solo col cuore”.
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