
La generazione di italiani – incluso me – che ancora ricorda gli anni del fascismo, della guerra e poi i primi del dopoguerra, ricorda anche in maniera chiarissima Leonor Fini, un’artista italo-argentina vicina al gruppo dei surrealisti francesi e dei metafisici italiani, molto battagliera per le sue difese della libertà di pensiero e di costume, e in maniera particolare dell’indipendenza della donna. Di lei si era anche parlato quando il MoMA a New York l’aveva inclusa nel 1936 in un’importante mostra collettiva di pittori surrealisti. Nel dopoguerra, però, di Leonor Fini si era parlato sempre meno, e perlomeno io mi ero chiesto più volte se fosse scomparsa.
Adesso la risposta viene data in modo fragorosamente appropriato da una vasta mostra personale intitolata “Leonor Fini – Theater of Desire: 1930-1990”, che le viene dedicata a New York da un nuovo museo (esiste dal 2002) che molti senza esserci andati accusano, oltreché ovviamente di pornografia, di superficialità e fatuità da circo, il Museum of Sex, cioè della sessualità; e che invece risulta un centro di esibizione molto serio seppure libertariamente ribelle; e, nel caso specifico, perfettamente attagliato alle qualità e tendenze di questa pittrice. La quale ha vissuto un’intensa vita di artista dedicata pressochè esclusivamente ai segreti, ai piaceri, ai dolori e alle manifestazioni della spinta erotica in tutto ciò che è vivente, nella psiche umana fino a quella animale, vegetale e puramente biologica; illustrandola in quadri luminosi e misteriosi che ha continuato a creare fino alla morte avvenuta nel 1996 a Parigi.

Nata nel 1907 a Buenos Aires ma vissuta in tutta la gioventù nell’ambiente cosmopolita di Trieste, pittrice autodidatta –diceva di aver solo studiato i cadaveri nell’obitorio triestino – si era presto trasferita a Parigi per entrare nel giro di Cocteau, di Picasso e di Cartier-Bresson e in seguito di Jean Genet. In arte e nella vita – due parametri che essa considerava uno solo –s’informava a stretti principi di supremazia femminile, in primo luogo, al disdegno assoluto del concetto della donna come “musa” dell’uomo. Ne sosteneva invece la forza di rivolta sociale e quella di protezione del maschio debole, sensibile e intelligente. Altro rigoroso principio, quello di rimanere sempre indipendente da qualsiasi gruppo e movimento artistico. Effettivamente i suoi rivoluzionari quadri e disegni, in cui l’incisività del pennello e la chiarezza cromatica evocano lontanamente l’opera dei fiamminghi e in particolare di Jan van Eyck, trasmettono con energia solamente gli esiti di una fruttuosa e costante emozione interiore.
Nella vita, conclusa tra Roma, le spiagge italiane e Parigi, Leonor ha legato al potente istinto estetico un istinto erotico espresso in ogni possibile forma, ma connesso poi a partire dal 1941 ad un legame con il diplomatico e pittore dilettante italiano Stanislao Lepri (Lao), il quale aveva poi quasi subito abbandonato la diplomazia per dedicarsi totalmente a Leonor e all’arte. A partire dal 1952, la coppia aveva attratto a se un altro uomo, bello, androgino e delicato, lo scrittore polacco Konstanty Jelensky (da molti ritenuto figlio illegittimo di Carlo Sforza). La formula “a tre” era poi persistita in maniera perfetta in quella che Leonor aveva definito, in un’intervista, “una esistenza meravigliosa”; fino alla morte che nel 1987 aveva rapito Jelensky, nel 1980 Lepri.

La mostra nel “Museum of Sex”, curata con genialità e diligenza da Lissa Rivera in eccezionale collaborazione con il Ministero della Cultura di Parigi si trova all’angolo dell’elegante Quinta Avenue, pochi isolati al di sotto della solenne biblioteca e museo del famoso banchiere Pierpont Morgan. Rimarrà aperta fino al 4 marzo del 2019. La mostra occupa due dei tre piani del museo; il terzo è occupato da un’interessante esibizione fotografica della vita notturna e erotica di Manhattan nel periodo di esplosivo successo delle discoteche newyorkesi, durato all’incirca fino al 1979.