C’è tempo fino a metà gennaio 2019 per andare a Bolzano, al Museion, e vedere la mostra personale di un grande artista contemporaneo, che si divide fra Stati Uniti e Svizzera, un piede a New York e l’altro a Ginevra: il suo nome è John Armleder ed è sicuramente tra i più famosi e influenti della sua generazione. Nato a Ginevra nel 1948, da padre svizzero e mamma americana (e proprio a quest’ultima si deve quel suo nome, John, così poco elvetico), Armleder affonda le sue radici artistiche nel movimento Fluxus con cui condivide l’interesse per la pratica artistica.
Eppure, dagli anni Settanta ad oggi, l’artista ha sempre rifiutato etichette stilistiche o appartenenza a qualche tendenza artistica specifica, realizzando via via oggetti e dipinti, sculture e installazioni, perfomance, video, audio e fotografie. Plus ça change, plus c’est la meme chose è il titolo proprio della mostra di Bolzano, una scenografia caleidoscopica e spiazzante, una grande opera d’arte composta a sua volta da diverse opere (installazioni con oggetti, piante vere e finte, monitor, grandi dipinti a parete, pellicole specchianti e molto altro ancora) concepita per essere percorsa e utilizzata dal pubblico. Il tutto tra luci e colori, che riflettono la passione dell’artista per l’immaginario del Natale, magari anche un (tanto) kitsch.
Mister Armleder, lei ha più volte sostenuto, in diverse interviste, che l’arte è vita e che la vita a sua volta è arte. È proprio così?
Sì, certo, e non sono il primo ad aver fatto questa affermazione. È un concetto che esisteva già tra i Dadaisti, nel movimento Fluxus e che posso dirle tanti altri artisti. Qui, in questa mostra, potete vedere che c’è una contrapposizione tra la vita vera e la rappresentazione della vita. Sarebbe difficile sfuggire a questa definizione. Insomma, cosa sarebbe l’arte se non la vita?
Nell’arte esistono confini precisi, per esempio tra ciò che è veramente artistico e ciò che invece è solo “commerciale”, oppure tutto è ormai un insieme di stili, generi, contaminazioni e altro?
Penso che ormai i confini siano stati superati, anzi spazzati via. Il punto è che la superficie dell’arte ha una grande libertà. È chiaro che c’è la tendenza a raccogliere l’arte in musei, gallerie, circuiti chiusi insomma. Penso sia una piattaforma per la vita in generale. E come abbiamo detto prima, è questa la cosa importante: l’arte ti dà i mezzi per comprendere il mondo e agire sul mondo.
Ogni artista di fama mondiale dovrebbe sentirsi un po’ responsabile di quello che fa, di ciò che crea, di quello che vuol raccontare al pubblico in fatto di arte. Lei sente questa responsabilità?
Io non so se ho questa responsabilità che è poi una componente fondamentale della storia dell’arte, che uno lo voglia o meno. Noi siamo solo dei trasmettitori, degli episodi che congiungono un prima e un dopo. Ciò che però pesa sulle nostre spalle è che abbiamo una libertà che a mio avviso nessun altro ha. E questo ci dà della responsabilità.
Lei è famoso anche per una certa sua dichiarata nostalgia. Per esempio so che ha una passione per i B movie, i film di serie B prodotti negli anni 50 e 60. So anche che ama la musica di quei tempi, che ama le camicie hawaiane (Infatti ne indossa una vistosa proprio durante l’intervista, come si vede anche dalla foto che lo ritrae, ndr) e so anche che ha una passione sfrenata per tutto quello che ruota attorno… al Natale. È vero?
Concordo con lei sui B movie, sulla musica e sulle camicie. Per il Natale non saprei dire se il mio sia proprio un vero ma è una tradizione culturale che viene trasmessa, celebriamo il Natale con tutta una serie di elementi che non hanno niente a che fare l’uno con l’altro e soprattutto con l’evento cui si riferiscono ovvero la nascita di Cristo. Il Natale che celebriamo deriva dal culto di San Nicola e non ha niente a che fare a sua volta con la nascita di Cristo. Io del Natale amo le musiche, il luccichio delle sfere, i colori, le luci. Questo sì!
Lei vive tra gli Stati Uniti e la Svizzera, tra New York e Ginevra. Una scelta dettata dalle sue radici svizzero-americane?
Praticamente ora vivo molto di più a Ginevra di New York, dove tempo fa avevo uno studio, anche se però non era mai una cosa stabile, facevo sempre avanti e indietro. Come ho detto altre volte, mia madre era americana, aveva un background americano anche se non aveva mai vissuto lì. Quindi era naturale che mi sentissi bene a New York, quasi come a casa, anche se li c’è molta vena artistica ma tutti corrono sempre. Ginevra è una città piccola ma molto cosmopolita a confronti con altre città europee, è la città più cosmopolita dopo Monaco in Europa. Diciamo che ora prendo un po’ dell’una e poi dell’altra città, e creo un mio mix.
“Un grande artista poliedrico, il più grande della sua generazione”, così la definiscono. Ovvero un artista che fa tante cose, che sperimenta, molto originale anche se, così mi pare da questa intervista, molto discreto. Insomma, questa etichetta di “grande artista” le piace?
Non credo nelle etichette, mi piacciono solo quelle che puoi appiccicare su qualcosa. Se credi che una etichetta possa definire il tuo lavoro sbagli di grosso, capisco però quegli artisti che fanno gli stessi lavori per tutta la vita perché vogliono andare al fondo di quello che scoprono e che indagano e per farlo nel modo giusto devono ripeterlo. Anch’io tendo a ripetermi ma sempre in un modo diverso, faccio le stesse cose ma con strumenti diversi ogni volta, per esempio.
Se qui, ora, un giovane artista le chiedesse assolutamente qualche buon consiglio, lei che gli direbbe?
È una domanda che mi hanno fatto e mi fanno sempre tante volte. Ho insegnato in diverse accademie per molto tempo e tutti mi chiedevano: cosa devo fare? Come devo farlo? A questo giovane artista, qui, ora, direi con tutta onestà che non c’è una ricetta precisa. Posso però consigliarlo sempre di essere soltanto se stesso. E buona fortuna.