Nell’estate del 1922, Alberto Giacometti, ventunenne, di famiglia ugonotta con spiccate tradizioni artistiche, lasciava la casa paterna nella cittadina di Borgonovo in Svizzera, non lontano dalla frontiera italiana, per trasferirsi a Parigi. Qualcuno gli chiese se lo faceva a causa del suo interesse per l’arte, che a cavallo tra i due secoli attraversava in Francia un periodo di splendore. Lui rispose: “Sì, certo, l’arte mi interessa moltissimo. Ma la verità mi interessa ancora di più”. È un principio che Giacometti non ha abbandonato mai. Lo dimostra una mostra retrospettiva delle sue opere – sculture, pitture, disegni, stampe – che si è appena aperta al Museo Guggenheim di New York, paragonabile per importanza a quella tenutasi al MoMa nel 1965 e una di quattro tenutesi finora in Europa e negli Stati Uniti. È significativo della profondità intellettuale del suo lavoro il fatto che abbia acquistato notorietà solo molto tardi nella sua vita, in particolare per il riconoscimento ottenuto alla 31.ma Biennale di Venezia che nel 1962 gli aveva assegnato il Gran Premio per la scultura. Quattro anni dopo questa drammatica apparizione di risonanza internazionale Giacometti, malato di cancro allo stomaco, muore per una crisi cardiaca.
Formatosi presso la Scuola di Belle Arti di Ginevra, al suo arrivo a Parigi aveva affittato un minuscolo atelier con un soffitto altissimo a Montparnasse – non lo avrebbe lasciato poi mai, per tutta la vita – e aveva proseguito gli studi presso il noto scultore Antoine Bourdelle, a sua volta allievo di Rodin. Tuttavia, dopo essere stato affascinato dall’arte di Cézanne – il maestro stringato e minimalista che getta la sua ombra su tutta l’ arte francese moderna – fin dall’inizio si era immerso nel Surrealismo, cioè nella corrente che più da vicino stimolava il suo desiderio di penetrare, come aveva detto, i paradossi che materiano la nostra vita. Interpretati in una chiave personalissima, con qualche influenza storicistica attinente l’arte egiziana conosciuta nei grandi musei parigini nonché l’arte etrusca che aveva conosciuto in un viaggio in Italia nel 1920, i lavori di questo periodo già mostrano immensa originalità sia concettuale che per novità dei materiali e della tecnica; e oggi, per la prima volta, un museo dell’importanza del Guggenheim ne espone un numero sufficiente di esemplari, tutti interessantissimi. In questo periodo strinse anche amicizia con artisti di primo piano come Picasso, Ernst, Miró, di cui subì qualche influenza, molto filtrata. È solo a partire dal 1936, tuttavia, che egli comincia ad esplorare quasi esclusivamente la figura umana, cioè il settore artistico che gli avrebbe procurato oggi speciale fama; e lo fece – aspetto molto interessante – per una “nostalgia” che – disse – lo aveva assalito improvvisamente per l’arte classica dei suoi studi giovanili.
Nella teoria di busti e ritratti a persona intera, sia maschili che femminili, sia nudi che vestiti, sia dipinti che scolpiti, che si susseguono in questa seconda fase, i tratti che predominano sono gli occhi e lo spessore evanescente nel soggetto. Giacometti spiega che sono i primi a determinare il secondo, perché la ricerca della verità nell’essere umano lo costringe, letteralmente, a un assottigliamento continuo della sua sostanza. In altre parole, l’artista subordina la sua opera a una rammemorazione continua del fatto che è la fisionomia, in particolare sono gli occhi del soggetto a comandare la penetrazione dell’animo da parte dell’artista, e non viceversa. “Una volta capiti gli occhi, il resto viene da sé” dice in una stupenda intervista filmata fattagli nel suo studio-cella di Montparnasse dal regista svizzero Ernst Scheidegger. C’è un momento – soggiunge – in cui la comprensione del soggetto avviene con una forza quasi esplosiva. Fino a quel momento l’attività del pittore è determinata dalla sua volontà di comprendere; la conseguenza è che egli non comanda né le dimensioni – il ritratto può diventare piccolissimo – né lo spessore del volto, perché l’assottigliamento corrisponde al progresso dell’intuizione.

Se ci si sofferma ad interrogare soprattutto lo sguardo dei soggetti di ogni dimensione, per esempio in uno dei primi ritratti che è un dipinto a olio, il “Ritratto di Jean Genet” del 1954-’55 o il ritratto in bronzo della sua modella Caroline che appare alla fine del decennio, ci si perde effettivamente in una profondità che pochi altri pittori o scultori hanno mai raggiunto. In ognuno delle decine e decine di soggetti, sia nei quadri a olio quasi monocromatici (quello che in essi predomina è il nero, con successive velature di grigio e pochi tocchi di biacca); sia nella folla di bronzi e gessi di ogni misura, è sempre lo sguardo, e ogni sguardo ha dietro di sé una palpitante emozione che non manca mai di comunicarsi a chi osserva. Sono gli ultimi anni del lavoro di Giacometti, il ritorno a Parigi dopo gli anni traumatici della guerra che l’artista ha trascorso quasi interamente a Borgonovo, in una camera d’albergo trasformata in studio. Nel dopoguerra c’è l’amicizia con il filosofo esistenzialista Jean-Paul Sartre e la sua compagna Simone de Beauvoir, che lo spinge ad accompagnare col pensiero l’intuizione e prolunga la sua ricerca. Una delle ultime opere, il busto del filosofo giapponese Isaku Yanaihaura, gli richiede duecentotrenta sedute. “È perché sono costretto ad arrivare al nocciolo della vita”, ripete l’artista, quando non manca molto alla fine della sua.