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Arundhathi Subramaniam: “Ad una poesia non ancora nata”

La poetessa indiana parla, in una lingua universale, dall'esterno del suo contesto culturale con un "semplice" pathos sorprendente

Elisabetta FavalebyElisabetta Favale
Arundhathi Subramaniam: “Ad una poesia non ancora nata”
Time: 3 mins read

Nella mia breve esperienza di lettrice che scrive anche di poesie, non mi era ancora capitato di parlare di una poetessa straniera. Lo faccio per la prima volta con Arundhathi Subramaniam, poetessa indiana, e mi sono domandata, leggendo il suo libro (una raccolta pubblicata da Interno Poesia: “A una poesia non ancora nata”), se potesse essere per me una difficoltà rispetto a quando scrivo di poeti italiani.

La risposta? No, perché Arundhathi Subramaniam parla una lingua universale e poi, come disse una volta il poeta Philip Larkin: “ Oh per amor di Dio, i poeti non si studiano! Li leggi e pensi”.

“Dammi una casa / che non sia mia,/ dove possa entrare e uscire dalle stanze/ senza lasciare traccia,/ … / Una casa come questo corpo,/ così aliena quando provo a farne parte,/ così ospitale/ quando decido che sono solo in visita”. “HOME” il titolo originale della poesia di cui ho citato l’inizio, la raccolta pubblicata da Interno Poesia ha entrambi i testi, in inglese e in italiano.

Arundhathi Subramaniam non ha mai ceduto alla tentazione di lasciare l’India pur sentendosi quasi un’aliena in un contesto sociale e politico che mostra di non condividere, sembra voglia in qualche modo distaccarsi dal posto in cui vive che le trasmette comunque pathos, sentimentalismo e lo racconta.

Arundhathi Subramaniam usa argomenti comuni in A una poesia non ancora nata, argomenti che sono fuori dalla poesia ma che finiscono per creare continuità tra la realtà che la circonda, il suo sentire e la sua poetica.

“Vivo su un cuneo di terra / conteso a un oceano stanco / da qualche parte al limite dell’universo.

Saluti da questa città / di tramonti L’Oreal / e pomeriggi diesel, / decidua di cemento / botulinizzata di vanità”.

Uno stile che ha la stessa scorrevolezza della prosa, è poesia personale quella di Arundhathi Subramaniam, nei suoi versi, parole e ritmo si incontrano e si scontrano, non sono solo testimonianza di qualcosa, sono arte.

“Mia nonna, / già saggia a otto anni, / si nascose sotto il letto / all’arrivo in casa del primo pretendente/.”

In questo ricordo una traccia delle tradizioni dell’India che ritroviamo anche nella sua dimensione mistica, religiosa.

Mi è piaciuta, mi ha divertita, “Spolverando la libreria” (on cleaning bookshelves)

“Permetti a Kerouac / di ammiccare / a Milton / Mira a Shankara / guarda Nietzsche fiutare con sospetto / Krishnamurti. / E ascolta attentamente / Ghalib che dalla fila dietro / sussurra sonnolento / a Keats”.

Ho citato solo alcuni versi ma rende l’idea di quello che Arundhathi Subramaniam voleva raccontare, almeno secondo me: il mondo, perché non ho trovato nei suoi versi confini angusti, non ci sono confini geografici, non ci sono confini culturali.

“le parole stasera sono armi. / Le usiamo con facile precisione, / di punta e di taglio, / le nostre mutilazioni sono degne di Spielberg, / disinvolte, perfino artistiche”.

“Inverno, Delhi, 1997

I miei nonni a gennaio/su un dondolo da giardino/parlano di vecchi amici di Rangoon,/della seduta del Parlamento, dei crisantemi,/di una bolletta della luce”.

Arundhathi Subramaniam mi sembra avverta l’urgenza di conferire significato alla sua esistenza, al suo percorso personale, tramite la scrittura meglio se sotto forma di versi.

Vi regalo una delle poesie che mi sono piaciute di più:

Preghiera

Che le cose rimangano come sono

nel luogo più semplice che conosci.

Che le persiane chiuse

mantengano l’aria fresca come essenza di gelsomino.

Che tu non possa mai scordarti di ascoltare

il gualcito sussurrare delle lenzuola

che modellano la tua forma dormiente.

Che i cuscini siano sempre argentei

di pelo di gatto e della tenue percussione

del respiro di un amante.

Che l’orologio a muro

continui a decretare

che la tua provvidenza

è dieci minuti in ritardo.

Che niente venga disturbato

nel luogo più semplice che conosci

perché è qui nel silenzio fetale

che i progetti si dissolvono

e cominciano le poesie,

e la fede si diffonde come il ronzio dei grilli,

fede in un tempo

in cui le mappe sbiadiranno,

la nostalgia cesserà,

e la veglia sarà finita.

E che i vasti campi screziati di luna,

le montagne opalescenti di neve inondata di sole,

risuonanti del riso di tutti i buddha,

non siano mai più lontani di un sogno.

 

E parla d’amore anche, e della poesia.

Ma bisogna che li leggiate, i versi di Arundhathi Subramaniam.

 

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Elisabetta Favale

Elisabetta Favale

Laureata in Scienze politiche, responsabile dell'ufficio appalti di una grande azienda, ha una grande passione per gli Stati Uniti. Scrive recensioni su una pagine del quotidiano Linkiesta, ha un sito dedicato alla letteratura americana.

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