Non è facile, New York City. Per tante cose, ma soprattutto per gli spazi. Che si tratti di un appartamento, o di un contesto commerciale/espositivo, prima di trovare quello giusto, devi passare per il purgatorio del disponibile. Se sei una galleria d’arte, magari ti devi far andare bene una location in qualche piano rialzato, senza accesso diretto alla strada. E la strada significa tanto, quando sei una galleria d’arte. Significa luce, occhi, curiosità. Un passante che entra a dare uno sguardo, scambia due chiacchiere col gallerista, e poi magari ne parla con un amico, un conoscente, avviando così il fuoco virale del passaparola.
Carla Delia e Christian Piscitelli, rispettivamente titolare e Sales Director della Ierimonti Gallery, lo sanno bene: dal quinto piano di un palazzo sulla 57esima, Midtown Manhattan, hanno guadagnato il pianterreno di Delancey Street, dando l’addio all’ascensore e conquistando una delle arterie più vive del Lower East Side.


Venerdì 22 settembre, la galleria, milanese di nascita e newyorkese di adozione, ha aperto ufficialmente le porte della nuova location lanciando, in concomitanza, la personale di Nebojsa Despotovic, “Enemy Who Must Be Loved”, che occuperà lo spazio fino al 10 novembre 2017. Nato a Belgrado, classe 1982, il giovane artista serbo sembra tutt’altro che giovane nella sua pittura. C’è qualcosa di tremendamente maturo, e be’, vecchio, diremo, nel senso di “navigato”, nella sua arte. Come se dipingesse da decenni, e avesse interiorizzato e digerito il materiale che poi esce fuori sulle sue tele, un processo che spesso è riscontrabile in artisti più vissuti. Nulla di acerbo, e nulla di immediatamente contingente, di urgentemente attuale. È orientato al recupero della memoria, il lavoro del pittore, il pennello la penna che ne fissa la storia sulla tela. Le tinte plumbee ci riportano a epoche in cui i colori semplicemente non potevano essere. Ed è evidente, ma mai mimetico, il richiamo a Francis Bacon, all’io in qualche modo punito, e privato di contorni chiari, come dissolto, eppure, alla fine, sempre presente — un nemico da amare, forse. Rimaniamo colpiti in modo particolare da Untitled, la figura di una bambina che guarda al cielo, o a un adulto che le sta parlando, o a chissà cosa. Oppure dal mezzobusto colto di fianco, il volto girato e non visibile, come se si negasse allo spettatore, gli sfuggisse, ma lasciandogli, comunque, il ricordo di sé.

Guardando alle opere di Despotovic si ha la sensazione di una coerenza eterogenea, varia e mai scontata, che spesso manca ai giovani artisti, la cui cifra stilistica si traduce spesso in banale serialità o spasmodica ricerca del nuovo. Nei soggetti del pittore serbo c’è riconoscibilità e novità.
Rivolgiamo qualche domanda a Christian Piscitelli in merito allo spostamento della galleria e alla mostra di Despotovic.
Raccontaci un po’ il cambiamento di location della Ierimonti. Dicci cosa vi ha condotto nel Lower East Side — e non Chelsea, per esempio? E cosa vi ha colpito anche dello spazio stesso.
“C’era il desiderio di cambiare, lo spazio in Midtown cominciava ad andarci stretto ed avevamo l’esigenza di avere una vetrina, un posto non locato in un building, ma che potesse essere visto anche da fuori. Abbiamo scelto il Lower East Side perché è una zona in evoluzione, ci sono molte gallerie che fanno un lavoro interessante sui giovani, quindi abbiamo pensato che, per il tipo di lavoro che vogliamo fare, che mira alla scoperta di nuovi artisti e nuove avanguardie, la zona fosse più indicata di Chelsea”.

Cosa vi ha fatto scegliere proprio Despotovic ed “Enemy Who Must Be Loved” per un opening tanto speciale, visto che coincide anche con l’inaugurazione della galleria? Parlaci un po’ della sua arte e della sua mostra, ma anche, se vuoi, di Nebojsa come persona, visto che l’avete ospitato per il lancio.
“Sono già un po’ di anni che seguiamo Nebojsa. Ci ha sempre colpito il suo modo di dipingere, la sua tecnica, ma anche il suo mondo interiore che in qualche modo viene espresso dai suoi dipinti. Nella pittura di Nebojsa c’è sempre una sorta di lotta, di conflitto, una tensione tra forza e rilassamento. Questo perché riflette la sua interiorità e l’evoluzione dal punto di vista umano che ha avuto in questi anni. Basta pensare al titolo della mostra, “Enemy Who Must Be Loved”. Chi è il nemico? E perché dovrebbe essere amato? Il senso della mostra sta tutto qua: in Nebojsa nemico di se stesso, perché parliamoci chiaro, siamo sempre noi i peggior nemici di noi stessi. Quindi Nebojsa che in qualche modo vive questo conflitto, ma che nel corso degli anni, dai suoi inizi ad oggi, impara qualcosa in più, impara a convivere e ad accettare, anche le brutture se vuoi, che ci sono in ognuno di noi, e quindi il nemico in qualche modo cessa di essere tale e diventa persona da amare.
Bisogna inoltre dire che la sua pittura è molto dispendiosa, molto fisica. Se prendiamo in esame la sua opera Blind Teacher, questa è stata dipinta con degli stracci su cui aveva applicato del colore e una volta dipinta la tela, ci ha dipinto sopra altre innumerevoli volte, tanto da far comparire quelle due immagini a cui non aveva pensato, ma che sono fuoriuscite attraverso il lavoro, in modo inconscio”.

Sappiamo che Despotovic è impegnato a raccontare, con la sua arte, il Caucaso, e la complessità di uno sfondo come quello balcanico. Come sta rispondendo, o come credi che risponderà un pubblico come quello americano, che magari non è vicino a questo genere di contesto?
“Despotovic, come dicevo prima, in prima istanza parla di se stesso, poi come ognuno di noi, porta con se un retaggio che spesso condiziona ciò che siamo. Il posto da cui proviene non è un posto facile e sicuramente ha inciso sul Nebojsa di oggi. Forse è proprio questo che, nonostante la sua età, lo rende un artista consapevole, ma soprattutto un artista generoso, onesto, che non si nasconde, ma invece si racconta. Si, penso che Nebojsa abbia un irrefrenabile desiderio di raccontarsi.
Per lui è la prima volta negli Stati Uniti, anzi la prima volta al di fuori dell’Europa. Il suo mercato è principalmente in Italia, dove lavora molto, ma penso che anche qui avranno modo di apprezzarlo. Devo dire che il nostro opening è andato molto bene e abbiamo ricevuto molti complimenti sulla mostra. Quindi possiamo dire che il primo feedback sia stato positivo”.
Futuri progetti in cantiere di cui puoi parlarci?
“Come dicevo prima, spostandoci nel Lower East Side vogliamo riappropriarci della

nostra storia come galleria, storia che ci ha sempre contraddistinto nella ricerca di nuove realtà artistiche. Nel passato abbiamo ospitato nella nostra galleria mostre di artisti come Ruscha, Nam June Paik, Baldessari e altri. E non parlo di quando sono diventati gli artisti che ora tutti conoscono, ma di quando, almeno in Italia, per i più questi erano nomi sconosciuti.
Circa le prossime mostre, posso dirti che una sarà una collettiva che si concentrerà sul territorio, la mappatura geografica, ma anche fisica, corporea. Tutto ciò che può essere inteso come limite, confine, estensione.
Poi ospiteremo una personale di un artista koreana, Jukhee Kwan, che lavora principalmente con la carta e fa cose meravigliose, ma non voglio dire altro. E poi stiamo organizzando la mostra con due artisti finlandesi, sono marito e moglie, Pekka e Teija Isorättyä che fanno principalmente sculture cinetiche”.
Aspettando la Corea e la Finlandia, ci godiamo la Serbia di Despotovic, a cui va il merito di aver riversato nel contenitore luminoso del 55 Delancey Street, una storia che trasmette l’urgenza di essere narrata, e vista.