Io sono il migliore è il titolo con cui la sede newyorchese della Ierimonti Gallery dedica all’artista italiano Salvo Mangione una mostra che riassume parte della sua carriera con una selezione di opere realizzate dagli anni ’80 fino ai giorni nostri. L’uso di forme semplici, di colori vivaci e tenui al tempo stesso in grado di conferire un tocco magico e di illuminare le tele di una candida luce propria, fanno di Salvo Mangione un artista unico e irripetibile.
“I suoi dipinti non si possono paragonare a quelli di nessun altro artista. Nei suoi quadri la luce è reale, trasmette forza e si carica di una connotazione quasi spirituale”, spiega il presidente della galleria, Carla Delia Piscitelli.
Nonostante le ostilità ideologiche del piccolo mondo artistico italiano, di lui hanno scritto diversi critici e il suo nome è stato inserito nei romanzi di Giuseppe Pontiggia e Leonardo Sciascia, per non dimenticare il suo riconoscimento internazionale consolidatosi grazie a retrospettive a lui dedicate a Gand, Lucerna e Lione. Da allora, la sua attività espositiva è proseguita con grande successo in Italia, Europa e Stati Uniti fino alla sua scomparsa avvenuta il 12 settembre 2015.
Nato in provincia di Enna, nella Sicilia più povera, a nove anni Salvatore Mangione emigrò con i genitori in una Torino ancora troppo avversa ai meridionali, dove iniziò a farsi chiamare Salvo per depistare i sabaudi. Fu proprio in questa città che iniziò a muovere i suoi primi passi nel mondo della pittura, dedicandosi alla riproduzione di opere di Van Gogh, Rembrandt, Fontana, Chagall e partecipando nel 1963 alla 121a Esposizione della Società Promotrice di Belle Arti. Verso la fine degli anni ’60, rientrato a Torino dopo aver preso parte ai movimenti studenteschi sessantottini a Parigi, Salvo Mangione strinse amicizia con i principali esponenti dell’Arte Povera, quali Alighiero Boetti, Mario Merz, Gilberto Zorio e Giuseppe Penone, oltre ad artisti concettuali americani come Joseph Kosuth, Robert Barry e Sol LeWitt. Durante un viaggio in Afghanistan nell’estate del ’69, iniziarono a delinearsi alcune tendenze che diventeranno in seguito i punti cardine della sua evoluzione artistica: la ricerca dell’io, l’autocompiacimento narcisistico, il rapporto con il passato e con la storia della cultura.
Senza mai aderire chiaramente a nessuno dei movimenti allora in fermento, Mangione produsse le sue prime opere all’inizio degli anni ’70: tra queste, una serie di 12 autoritratti concepiti come fotomontaggi, in cui il suo volto era sostituito da immagini tratte dai quotidiani. Tra gli altri lavori ironici e provocatori, la serie di lapidi in marmo su cui incise epigrafi autocelebrative come “Io sono il migliore” (da cui prende nome la mostra della Ierimonti Gallery) e “Salvo è vivo”. Tra le altre opere appartenenti allo stesso periodo, ricordiamo Tricolore (1971) e la serie delle Italie e delle Sicilie, iniziata nel 1975: la prima consiste in una superficie in cui le lettere del suo nome risaltano al neon nelle tonalità della bandiera italiana, mentre le seconde rappresentano mappe geografiche recanti il suo nome, preceduto da quello di illustri filosofi, pittori, musicisti e letterati del passato.
Eppure, la pittura restava il suo primo grande amore, tanto da dichiarare in un delle sue rare interviste: “Sono stato letteralmente conquistato dalla pittura: è qualcosa che mi dà spazio, che mi apre le conoscenze, idee”. Così, a partire dal 1973, iniziò ad esporre in gallerie nazionali e internazionali i suoi d’apres di grandi maestri del Quattrocento, ritraendosi nei panni di San Michele, San Giorgio o San Martino. Tali opere suscitarono subito scalpore, tanto da essere additato come passatista e reazionario. Ma l’intenzione dell’artista era proprio di radicarsi nella tradizione, prendendo come modello de Chirico, che già negli anni Trenta aveva compiuto un salto d’epoca passando dalla pittura metafisica a quella “neobarocca”. Proprio per questo motivo, Salvo Mangione continuò a misurarsi con tutti i generi pittorici.
Parallelamente, iniziava a delinearsi un nuovo momento della sua ricerca, che lo portò a concentrarsi sulla composizione di paesaggi dalle forme semplificate e, più tardi, dai colori squillanti: prima case di campagna, chiese e monumenti di ispirazione giottesca; successivamente, rovine e testimonianze di civiltà passate accostate al paesaggio. Al ritorno da un lungo viaggio nella penisola balcanica, partì dal ricordo della Sarajevo di allora e dalla sua realtà contraddittoria di luogo di confine per comporre le celebri Ottomanie, in cui compaiono minareti nel bel mezzo di città immaginarie o di suggestivi paesaggi notturni. Dopo i paesi dell’Oman, della Siria e degli Emirati Arabi, raffigurati all’inizio degli anni ’90, si lasciò ispirare dal panorama del Golfo di Policastro e dalla vetta del Monviso fino al 2005, anno in cui la sua pittura ha intrapreso una nuova direzione, introducendo un nuovo taglio prospettico nei suoi paesaggi e rivolgendo una maggiore attenzione alle pianure.
La mostra, curata dal vice presidente della Ierimonti Gallery, Cesare Luigi Caini, resterà aperta fino al 16 marzo.
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