Niente esubero di metri quadri per la Galleria Ierimonti, che si trova al quinto piano del Gallery Building, sulla 57th Street. È uno spazio contenuto che, a quanto ho avuto modo di vedere mercoledì 22 febbraio all’opening della mostra Faraway, So Close, sa come riempirsi di bellezza. Fa piacere constatare che nell’America che qualcuno vuole grande a tutti i costi, il piccolo, di qualità, vinca.
Faraway, So Close è una collettiva che riunisce undici artisti diversissimi tra loro, per nazionalità, epoche, stili e materiali utilizzati — Joseph Beuys, Alighiero Boetti, Claudio Costa, Charles LeDray, Carlos Garaicoa, Piero Manzoni, Carol Rama, Kohei Nawa, Lucy+Jorge Orta, Motoi Yamamoto e Yeesookyung. Eppure, nonostante questa diversità di linguaggi, soggetti e generi, le opere esposte costruiscono un dialogo fra loro che è percepibile nell’istante in cui si varca la soglia della galleria. Quando confesso questa mia prima impressione a Carla Piscitelli, proprietaria della Ierimonti, mi conferma che “Faraway, So Close vuole proprio sottolineare la vicinanza delle opere di questi artisti, nonostante la loro apparente distanza”. E in effetti il contrasto scelto per il titolo spiega efficacemente l’anima antitetica della mostra.

All’interno dello spazio espositivo campeggiano nomi grandi della storia dell’arte del ‘900, e nomi molto noti dell’arte contemporanea. Il visitatore è immediatamente attirato al centro, dove incontra un barattolo della famosa Merda d’Artista di Piero Manzoni, la sfida che l’artista milanese lanciò nel 1961 e che rimise in discussione la natura dell’oggetto artistico, strizzando l’occhio a Duchamp e prefigurando l’avvento dell’arte concettuale. L’opera provoca sconcerto attraverso il rovesciamento della natura del suo (presunto) contenuto che viene proposto nelle gallerie come una vera e propria opera d’arte, e irride il processo di mercificazione a cui la società consumistica post-boom economico sottoponeva l’arte. Manzoni produsse 90 scatolette numerate e firmate, imponendo un prezzo di vendita, con una valutazione a peso moltiplicato per il prezzo dell’oro: forse non avrebbe mai immaginato che nel dicembre del 2016, una di queste scatolette sarebbe stata battuta all’asta per 275.000 euro — e forse questo l’avrebbe divertito molto…

Christian Piscitelli, sales director della Galleria, mi accompagna in un tour delle opere esposte. “Questi undici artisti hanno sviluppato il loro linguaggio attraverso uno specifico materiale. Carol Rama, per esempio, presente nella mostra con l’opera Barceau, utilizzava la tela, ma sopra di essa apponeva camere d’aria, plastica, gomma, che rendono estremamente riconoscibile la sua arte. Lo stesso dicasi per l’artista giapponese Motoi Yamamoto, che è solito lavorare con il sale, e realizza questi quadri-sculture tra cui Labyrith #2 esposto qui — una sorta di labirinto salino. Un altro artista giapponese, di Kyoto, molto affermato, è Kohei Nawa, presente al momento anche al MET con il suo famoso Cervo pixcellato”.
Christian Piscitelli ci spiega che Nawa ha coniato il termine “PixCell”, associando il termine “pixel” — il più piccolo elemento grafico visibile sullo schermo, corrispondente a un punto luminoso — a “cell”, “cellula”. Pertanto il PixCell è un concetto che combina i pixel con le cellule organiche. Nawa ricopre la superficie di oggetti e animali imbalsamati — come il cervo al MET — con perle di vetro di varie dimensioni: le “pixcellula”, diremmo, declinando il suo neologismo. Attraverso questo processo, Nawa ridefinisce gli oggetti esistenti e cambia il modo in cui li percepiamo e ci relazioniamo con loro. Questo è evidente in Pixcell Toy Machine Gun (Commando), la sua opera presente alla Ierimonti, che attira l’attenzione tanto quanto il famoso barattolo di Manzoni. Le bolle, in cristallo e plexiglass, tenute insieme con della colla a caldo agiscono da lente d’ingrandimento, pertanto la realtà offerta all’occhio dell’osservatore è modificata, e questo altera la percezione dell’oggetto stesso. E quando l’oggetto prescelto è un mitra, l’interpretazione allude a un sottotesto molto esplicito — violenza, guerra, potere, dolore — ma al contempo viene sottoposto a una procedura estetizzante-sdrammatizzante che crea un momento ludico, un prodotto curioso, uscito quasi da un sogno, da una fantasticheria, o da un cartone animato — il mitra, in fondo, e lo ribadisce il titolo, è un giocattolo. E questa è la cifra di questo artista: coprire oggetti comuni con un materiale nuovo, e attivare un processo di morphing da cui spuntano creature inaspettate, mai viste prima.


Davanti a Per nuovi desideri, Christian Piscitelli ci spiega che Alighiero Boetti figura tra gli artisti scelti perché la Galleria è molto legata alla sua opera, come dimostrato da Alighiero Boetti: Insicuro noncurante, la mostra a lui dedicata allestita a New York nel 2015. Lo stesso vale anche per Nawa e Yamamoto, esposti entrambi nella sede milanese della galleria, così come Carlos Garaicoa, presente qui con l’opera Untitled.
Continuiamo il tour e ci fermiamo davanti a Insettudine e Pagliaio, di Claudio Costa. “Ci sono alcuni artisti che vengono dimenticati e che poi, a un certo punto, esplodono. È il caso, per esempio, di Costa, alla cui opera siamo affezionati”, commenta Christian.
Claudio Costa è noto per l’adozione di materiali disparati e umili — come Arte Povera insegna — e per la manipolazione di oggetti e iconografie che vanno dall’antropologia all’alchimia, creando momenti tra il visionario e l’atavico.
Costa scrisse che, “L’arte è un diapason della psiche che capta i segnali della specie, li fascia di ricordi, li accompagna coi fantasmi, li accoppia con la grazia”. E davanti a Pagliaio ritroviamo esattamente questa combinazione di elementi in perfetta armonia fra loro — psiche, arcano, memoria, bellezza


Il mio tour si conclude davanti ad Amazonia – Vitrine, di Lucy + Jorge Orta, una coppia di artisti inglesi noti internazionalmente per il loro impegno in progetti che sensibilizzano l’opinione pubblica verso lo sviluppo sostenibile. Ma ovviamente l’idea è di farlo attraverso l’ironia, come l’opera esposta ben dimostra: cinque bottiglie di vetro vuote con la scritta “OrtaWater” circondate da un tubo che termina con un rubinetto. Oppure il loro splendido, Amazonia Elephant Bird Egg, che Francesca Cigola, exhibitions manager della Galleria, mi fa notare. E io noto un uovo di porcellana di Limoges tatuato con strane creaturine tra preistoria e biologia, sintesi riuscita fra artificiale (porcellana), primigenio (uovo) e conseguente in-fusione dell’uno nell’altro.
Capita raramente di trovare artisti del calibro di Boetti, Rama, Manzoni, Nawa, Beuys, in un contesto non museale. Perdere l’occasione di goderne, sarebbe un vero peccato.