Nato in una tiepida giornata di inizio autunno, il 21 settembre 1978 a Sofia, Alexander Jakhnagiev cresce in una Bulgaria divisa tra il regime sovietico ormai al tramonto e i primi esperimenti di multipartitismo che porteranno alla nascita della Repubblica democratica bulgara. Giornalista, pittore, scultore, Alexander è figlio d’arte, del pittore Ivan Jakhnagiev, molto conosciuto in Bulgaria e in Europa. E dopo un percorso di studi che lo ha portato a Perugia e Roma, ha al suo attivo, oggi, oltre cento mostre personali allestite in tutto il mondo, in spazi pubblici (Parlamento Italiano, Parlamento Europeo a Bruxelles) e privati. Oggi Alexander vive e lavora a Roma, dove è anche direttore dell’agenzia televisiva nazionale Vista, che ha fondato.
Lunedì 2 ottobre, la sua mostra “Colori” sarà inaugurata alle 6.30pm presso il Consolato Generale d’Italia a New York, dove sarà possibile visitarla fino al 12 ottobre. Con “Colori”, 15 quadri astratti a tecnica mista su tela, acrilici, matite, pastelli a olio e pastelli a cera, e tecnica mista ad applicazioni, Alexander esprime la sua visione d’arte, dove il colore incontra la notizia e la pittura introduce un nuovo modo di comunicare.

Alexander, qual è il concept della tua mostra e della tua ricerca artistica?
“La mostra si chiama ‘Colori’ ed è è la chiave di volta dell’esposizione, perché sono opere molto colorate e i colori rappresentano la mia forma di espressione. Sono 15 opere, tutte dipinte per l’esposizione a New York. Ci sarà anche una video-installazione che raccoglie le mie performance degli ultimi anni”.
Come sei arrivato in Italia e che ricordi hai della Bulgaria?
“In Bulgaria già da piccolo mi sono sempre trovato in mezzo ai colori perché ho frequentato il noto studio di mio papà Ivan, un artista importante in Bulgaria. Ho studiato invece in una scuola a Sofia, che è diventata nel corso degli anni un liceo italiano ed è lì che ho preso il diploma italiano. Ho capito che l’Italia era la mia strada e mi sono trasferito”.
Che percorso universitario hai fatto?
“Prima a Perugia, dove ho studiato presso l’Università degli Studi con una specializzazione in antropologia e comunicazione, e una tesi dal titolo ‘La creazione della notizia’. Poi a Roma, con un percorso parallelo tra comunicazione e arte”.
Comunicazione e arte sono le due sfere che caratterizzano la tua vita personale e professionale: come si legano?
“Il mio percorso artistico di oggi è caratterizzato oggi dall’organizzazione e l’ideazione di eventi a forte impatto sociale e comunicativo, con l’obiettivo di incanalare e trasformare la ricerca artistica ed estetica attraverso un gesto performativo. Un modo, nelle mie intenzioni, che permetta di cambiare il modo con cui vedere una cosa, una città, uno scorcio, nella speranza che possa avere un impatto sulla società”.
E in questo, che ruolo ha la comunicazione?
“Per avere impatto, questo gesto performativo deve contenere elementi di comunicazione, quindi delle performance che si incanalano nell’aspettativa di creare un impatto, o comunque un piccolo cambiamento di veduta a livello delle persone che vi partecipano”.

Qualche esempio?
“Mi viene in mente la strada ad Assisi coperta da 2mila ombrelli, che ha cambiato la città e la sua veduta attraverso un’opera di Land Art. Oppure utilizzare l’arte e l’esperienza estetica delle opere per raggiungere obiettivi utili: per esempio quando abbiamo dipinto, a Perugia, i piedi dei giocatori di calcio. Abbiamo fatto lasciare loro l’impronta, creato delle piccole opere artistiche e organizzato una cena di beneficienza per venderle: il ricavato è stato dato a un istituto che si occupa di bambini malati di leucemia, in quel caso”.
Tu sei sia pittore che giornalista. Ma queste due figure possono davvero convivere? Può un artista essere giornalista e un giornalista un artista?
“Partiamo da una premessa: nel mondo dei social media, il giornalismo tradizionale è all’estinzione, è morto e superato, quindi il giornalista deve essere un po’ anche artista per emergere nella marea di notizie. Deve saper individuare con dei criteri precisi quali possono essere le informazioni importanti e quali possono diventare una notizia”.
E l’artista di oggi, quindi, si fa giornalista?
“È tornato ad esserlo in realtà, perché all’inizio lo era. L’artista così come lo conosciamo nel Medioevo o nel Rinascimento, ad esempio nelle pitture rupestri, era ance giornalista perché raccontava al prossimo quello che accadeva e lo lasciava ai posteri. Raccontava un assetto sociale attraverso i murales e le opere. Erano fotografie del tempo, un po’ come erano e volevano che fossero”.
Erano dei cronisti inconsapevoli, ante litteram…
“Esatto, questo concetto del giornalismo all’interno dell’arte poi è stato spogliato con il passare degli anni, prima con la fotografia, poi con il cinema, ma c’è sempre stato. L’arte si concretizza e diventa arte nel momento in cui la comunichi, se non lo fai diventa qualcosa che nessuno capisce, diventa introspezione e non cambia la vita di nessuno”.

Quanto tutto questo si rivede nel tuo percorso di 15 opere?
“Cerco di esprimerlo attraverso i colori, attraverso l’esposizione di ciò che mi ha guidato fino ad ora come pittore e come giornalista: ogni mia opera esposta è un po’ un pezzo di me. Allo stesso tempo sono opere astratte, quindi nelle mie opere c’è quello che uno vuole e può vedere: la magia di un’opera astratta sta proprio qui, che più tu la guardi, più cose vedi e scopri. Un’opera astratta è una forma nella fase del suo diventare forma”.

Un ruolo importante nel percorso di Alexander lo ha avuto il papà, Ivan Jakhnagiev, cresciuto nella Bulgaria sovietica e in quotidiana lotta per la propria libertà d’espressione. Nato a Sofia nel 1948, Ivan studia pittura presso l’Accademia delle Belle Arti di Sofia, laureandosi nel 1977. La sua attività artistica spazia dalla pittura alla grafica, dai murales alle illustrazioni e Ivan è considerato pioniere della body art nel suo Paese, oltre che artista di spessore con oltre cento mostre personali in gallerie e spazi pubblici in tutta Europa.
Ivan, ma quando ha capito che anche suo figlio Alexander sarebbe potuto diventare un’artista?
“Fin da quando era piccolo, ma credo sia normale quando un figlio cresce nella casa, che diventa anche studio artistico, del padre. Mio figlio è cresciuto con i colori, con i quadri, una passione che ha avuto fin da piccolo e che pian piano si è evoluta”.
Quanto c’è in lui della sua arte?
“Non tutto, ma di sicuro la base di partenza. Prima ha guardato che cosa facevo io e come la facevo io, poi è cresciuto e ha trovato la sua strada. Per me è importante questo”.
Cosa c’è di diverso tra le opere di Ivan e quelle di Alexander?
“Credo che l’arte di un pittore sia strettamente collegata al proprio vissuto artistico. In lui non c’è la vita in Bulgaria che ho vissuto io, non c’è forse quella sofferenza per la continua lotta nella libertà d’espressione. Per questo anche io studio i suoi quadri, oggi, per capirli”.
Lei come artista ha vissuto a pieno la stagione della Bulgaria degli anni ’70 e ’80, segnata dai conservatorismi del regime sovietico. Quando vede i quadri di suo figlio Alexander, cosa vede?
“Libertà. Vedo la libertà che a me è mancata, quella che non ho provato in Bulgaria perché quando ero giovane era un concetto chiuso. Quando non c’è libertà le menti si chiudono, rendono meno di quanto potrebbero. Nei quadri di Alexander però la vedo. Libertà, un po’ come quella che si respira qui a New York”.