Non si può dire che la prima Biennale inaugurata lo scorso marzo nella nuova sede del Whitney in Gansevoort Street non abbia fatto parlare di sé. La polemica scoppiata intorno a Open Casket, il quadro di Dana Schutz che ritrae una bara con il corpo sfigurato di Emmett Till, il quattordicenne di colore ucciso e seviziato da due bianchi nel 1955, ha riempito pagine di giornali, blog, dibattiti, aule universitarie, salotti. Se l’artista bianca si sia appropriata o meno del dolore nero e l’abbia sfruttato/spettacolarizzato, ricavandone visibilità e danaro, è la patata bollente che le parti in causa — e non solo — si passano sin dal giorno in cui la polemica è scoppiata. Con questa bella gatta da pelare fra le mani, il Whitney ha dovuto mettere a punto una strategia su come porsi rispetto alla bagarre, e i curatori, rilasciare ben più di un’intervista per chiarire la posizione del museo.
Ma come si dice, the show must go on, e mentre il dibattito continua a trascinarsi sui giornali e in rete, dove non accenna a scemare, il Whitney inaugura la mostra Where We Are, un corpus di opere dal 1900 al 1960 scelte dalla collezione permanente del museo ed esposte al pubblico a partire dal 28 aprile 2017 e al momento senza data di fine. Sessant’anni intensi e difficili, quelli proposti, durante i quali l’America ha dovuto fare i conti con la guerra, il crollo economico e la conseguente ripresa, la questione raziale, le battaglie per i diritti civili e il cambiamento del lavoro.

La mostra si sviluppa attorno a cinque aree tematiche — famiglia e comunità, lavoro, casa, vita spirituale e nazione — e trae ispirazione da un verso della poesia September 1, 1939 di W. H. Auden, che viene ripresa anche in ognuna delle cinque sezioni proposte. Cresciuto in Inghilterra, il poeta scrisse la poesia a New York City poco dopo esservi immigrato all’inizio della Seconda guerra mondiale — il titolo della poesia è la data in cui la Germania invase la Polonia. Tutto il testo è soffuso da un’atmosfera tetra e malinconica, ma si chiude, tuttavia, sulla capacità dell’uomo di “mostrare una fiamma affermativa”. Where We Are condividerebbe il cauto ottimismo di Auden proponendo un insieme di artisti “la cui luce possa farci andare avanti”, come si legge nel press release del museo.

Durante l’anteprima stampa, Adam Weinberg, direttore del Whitney, ha ringraziato profusamente lo staff per il lavoro svolto, in modo particolare Scott Rothkopf, vice direttore del museo, e di David Breslin, neo direttore della Collezione Permanente. Di quest’ultimo, Weinberg ha cantato le lodi, “È in grado di far dire all’architettura ciò che le opere dicono”. Forse perché Breslin, ex Chief Curator presso il Menill Drawing Institue di Houston, avrà avuto modo di famigliarizzare con l’architettura di Renzo Piano, autore sia del nuovo Whitney che della Menill Collection, splendido edificio a due passi contati dal Drawing Institue.
“È stato fatto un gran lavoro mosso dall’amore. Un gran lavoro, certo, ma mosso dall’amore”, conclude Weinberg prima di passare la parola a Rothkopf, il quale, più che concentrarsi sulla mostra in sé, ha pubblicizzato gli assi nella manica del museo per la prossima stagione: Calder: Hypermobility (9 giugno – 23 ottobre), una nuova mostra sull’artista dei mobiles che, secondo Rothkopf, “proporrà una prospettiva completamente nuova sull’opera di Calder, con dei pezzi meccanici mai visti che si muoveranno ed emetteranno suoni”. Poi Hélio Oiticica: To Organize Delirium (14 luglio – 1 ottobre 2017), la prima retrospettiva completa sull’artista brasiliano organizzata in America. E poi ancora Bunny Rogers in estate, e Jimmie Durham in autunno. L’unico accenno alla Biennale è solo per sottolineare, fra il diplomatico e il vago, che “non è il punto d’arrivo, bensì quello di partenza”.

Infine la parola al protagonista, David Breslin, mente e mano di Where We Are. “Avevamo l’idea di organizzare la mostra ben prima di scoprire la poesia di Auden. Ma, come spesso succede con la poesia, che rimane sopita ma latente dentro di noi, mi è tornata in mente. L’immagine di Auden, seduto in un bar di New York, a riflettere su tutto ciò che stava capitando in quel momento in Europa, allude alle tantissime reazioni con cui gli artisti possono rispondere alle sollecitazioni esterne, siano esse in forma di ispirazione o di fatti storici. La mostra ruota proprio attorno a questo punto, partendo dal presupposto che l’arte è fondamentale nella formazione del proprio io”, spiega Breslin.
La conferenza stampa si è tenuta nella sala principale del settimo piano, dove si trova la mostra, e il podio da cui il Management del Museo ha parlato svettava strategicamente fra due opere iconiche di Jasper Johns e Edward Hopper, “Three Flags” ed “Early Sunday Morning” — un chiaro statement dello spettacolo che lo spettatore deve aspettarsi visitando Where We Are.
Oltre ai due artisti nominati, Louise Bourgeois, John Steuart Curry, Georgia O’Keefe, Roy Lichtestein, Joseph Pennell, Jay DeFeo, Ellsworth Kelly, insieme alle recenti acquisizioni di James Castle, Palmer Hayden, Archibald Motley, PaJaMa. E l’opera che sia Weinberg sia Breslin hanno tenuto a rimarcare, “Mount Vernon” di Herman Trunk Jr. che, a detta di Breslin, “ha ripensato una scena 100% americana attraverso il cubismo, suscitando un senso surreale della nazione” e, a detta di Weinberg, “è come guardare un film muto”.

Ci sono dei pezzi particolari, in questa mostra. La busta di una lettera inviata da Merce Cunningham a Bob Rauschenberg che Jasper Johns reinterpreta in un “Flag Study”. Una fotografia di Diane Arbus in cui “Uncle Sam” è un poveraccio travestito da mattatore circense — come da stile Arbus. Una litografia attualissima di Bernard Bryson Shahn che ritrae “30,000,000 Immigrants” nel 1935. Ci sono cinque Hopper che faranno accorrere gli appassionati da ogni angolo del paese. E c’è uno splendido Joseph Stella, “The Brooklyn Bridge: Variation on an Old Theme”, in cui il ponte di Brooklyn sembra la cattedrale in cui si prega una nuova religione.
Dato che nemmeno Breslin ha nominato “Open Casket”, e dato che la mostra include anche opere che potrebbero essere considerati scottanti — o che la scelta della loro inclusione nella mostra potrebbe esserlo — come ad esempio la serie “The Negro Woman” di Elizabeth Catlett, avviciniamo Breslin e chiediamo se il polverone sollevato attorno al quadro di Dana Schutz abbia in qualche modo impattato su Where We Are.
“Sottopongo sempre al giudizio dei miei colleghi la possibilità che i dipinti possano creare dei problemi

— è un lavoro di squadra, quello che portiamo avanti qui al Whitney. Ma alla fine l’arte è anche questo: far parlare di ciò di cui non si parla. Per esempio eravamo preoccupati che la tela di Grosz, ‘Waving the Flag’, potesse essere considerata troppo forte — la bandiera nera può evocare pericolose associazioni. Ma, ripeto, questo è il compito dell’arte”.
E su questo non ci piove. Ma se l’arte deve far parlare, avremmo gradito che si parlasse, o perlomeno si accennasse, al caso Schutz. Non avrebbe certo rubato la scena a Where We Are, una mostra sbocciata da una poesia che vale senz’altro una visita al museo.