In occasione della mostra The Day Memory Dissolved, esposizione che raccoglie le fotografie scattate da Massimiliano Gatti tra la Siria e l’Iraq, abbiamo intervistato Renato Miracco, curatore della esposizione. Autore, saggista, esperto d’arte, Renato Miracco ha curato più di cento mostre in tutto il mondo. Nel 2005 è stato guest curator alla Tate Modern di Londra. Già direttore dell’Istituto di Cultura di New York, Miracco è colui che ha negoziato il Memorandum of Understanding (MOU) sull’archeologia fra il governo italiano e quello americano.
Ho letto la tua presentazione. Chi siamo e da dove veniamo. Ormai sembrano domande inutili. Oggi e’ tutto presente, il passato non interessa, quasi non esiste. Ti chiedo, dunque, a parte la forza artistica, proporre una mostra del genere che altri significati ha per te (se ne ha)?
“Credo sia un dovere della nostra generazione (la mia generazione) contrastare la tendenza a focalizzarci sul presente. Dobbiamo dare al pubblico, alla gente, alle nuove generazioni, l’idea di una continuità che parte dal passato e va verso il futuro. Se non facciamo questo, stiamo perdendo la nostra memoria, focalizzandoci solo sul presente. L’hic et nunc è fondamentale, ma acquista maggior valore se collegato al passato e al presente”.
Le mostre che proponi sono sempre uniche e diverse da quello che si vede in giro. Propongono spesso un’arte che usa un’altra arte per parlare. Ricordo una mostra di anni fa dove delle foto erano in realtà dei quadri realizzati dall’artista e poi fotografati in modo da sembrare momenti di vera vita. Ora questa mostra usa la fotografia come pennello per far riflettere sulla nostra identità. Come scegli quale mostra presentare?
“La mostra deve dapprima stupire me stesso che la creo, deve darmi un altro punto di vista, di osservazione, deve farmi pensare, deve farmi agire. Rispetto a questa, sulle preservazione del patrimonio artistico, dico e ripeto in ogni conferenza: non pensiate che sia qualcosa che non vi riguardi personalmente, che qualcun altro farà al vostro posto. Tutti devono fare, tutti devono avere un ruolo, cominciando ad instillare nei bimbi (e sto iniziando un progetto nelle scuole americane) su cosa vuoi preservare della tua vita, cosa vuoi che resti della tua vita come memoria da condividere. I risultati sono sconvolgenti, inattesi, credimi. Bisogna solo iniziare il processo, poi va in automatico. Preservare per condividere. In questa direzione la multi-etnicitùà, il problema della crescente immigrazione e coabitazione può e deve muoversi”.
Puoi rivolgerti ai nostri lettori e dire loro direttamente perché non devono perdersi questa mostra.

“Perché se vissuta realmente è un’esperienza di vita. Quando realizzi che sul terreno dove sorgevano templi, che non esistono più, puoi trovare reperti archeologici e proiettili, il mio allestimento rispecchia tutto questo. È focalizzato non solo su quello che c’è, che è rimasto, ma su quello che manca e che forse non riavremo più. Voglio incutere il senso della perdita con questa mostra”.
Sono anni che operi in America. Che tipo di accoglienza ha la nostra arte ad oggi. È cambiato qualcosa da quando sei arrivato?
“Credo sia cambiato molto e ci stiamo muovendo nella giusta direzione con le mostre italiane, seguite non solo all’Italian Academy [dove è in corso la mostra di Gatti fino al 16 novembre, ndr], ma anche al CIMA e in altri tanti musei. Bisogna sempre muoversi e cercare di stabilire un sistema di valorizzazione dell’arte italiana che va dall’organizzazione delle mostre ai convegni teorici sull’arte italiana. Ovviamente c’e’ bisogno, di pari passo, di donazioni degli artisti italiani alle principali istituzioni americane, cosa a cui sto lavorando alacremente”.