Per lui l’architetto è una sorta di Dr Strange, il protagonista dell’ultimo film della Marvel che “imbriglia le energie per modificare la realtà cambiando forma a dei palazzi o delle intere città”. Daniele Pronestì, calabrese di Polistena, arriva a New York a venticinque anni, quando puoi ancora permetterti il lusso di sbagliare. E invece Daniele si gioca tutte le carte vincenti nella Grande Mela.
Inizia gli studi di architettura all’Università di Reggio Calabria per poi trasferirsi a Ferrara. Il salto verso la dimensione internazionale è immediato: studi presso la Royal Danish Academy di Copenhagen, dove scrive una tesi sulla rigenerazione urbana e sostenibile di Refshaleoen, stage a Londra presso un importante studio di architettura, un corso in strategic management alla London school of economics e uno in real estate finance alla Harvard school, diversi riconoscimenti internazionali. E poi arriva New York.
Poco prima della laurea viene assunto a New York da Bjarke Ingels Group, noto come BIG, una delle firme di architettura e progettazione più innovative che oggi conta 400 dipendenti e lavora a progetti come il nuovo campus Google, il sistema di trasporti hyperloop, l’interessantissimo progetto denominato Big U e finanziato con i fondi federali che serve a proteggere Manhattan dal rischio di ulteriori allagamenti, il nuovo campus Smithsonian nel cuore di Washington.
Oggi a ventisei anni ci racconta di un percorso tutt’altro che facile, del suo rapporto con New York e di quello con la sua Calabria. La città del futuro per Daniele “è quella che verrà creata sulla Luna con dei moduli spaziali stampati in 3d che sta progettando Foster and Partners per la Agenzia Spaziale Europea. Infondo il futuro è già qui”.
Sei arrivato a New York giovanissimo quando per molti tuoi colleghi questa è la destinazione finale. Come hai vissuto e vivi questo passaggio nella Grande Mela?
“È stato incredibilmente eccitante arrivarci a 25 anni. Ho conosciuto New York leggendo le avventure di Spiderman che in tutina aderente volteggia tra i grattacieli. Poi, le sit-com con le finte risate, le immagini aeree dello skyline di Manhattan, ma quando sono arrivato mi sono reso conto che è una città diversa da come la percepivo. Inaspettatamente, però mi sono sentito a casa, è una città così globale da diventare collettiva. Come tutti i veri amori anche io e New York abbiamo avuto alti e bassi ma non ci abbandoniamo. Complice il lavoro che sognavo, in una età che mi lascia ancora il lusso dell’errore. Lavorare da Bjarke Ingels Group, a mio parere uno dei posti all’avanguardia in termini tecnici e di comunicazione del prodotto, mi ha dato molte chance e in alcuni casi progettare qualcosa a New York significa modellare il futuro, il sogno di ogni architetto. Nella mia testa ora coesistono due New York: quella dei fumetti e quella che vivo. Non si escludono, anzi si compensano. Inevitabile il confronto con l’Italia”.
Inevitabile da che punto di vista?

“È divertente, perché ho notato che in Italia l’unico a parlare di architettura in televisione è Maurizio Crozza con le sue imitazioni. In fondo il popolo italiano e alcuni architetti hanno una cosa in comune: prendono il divertimento molto seriamente. Mettiamola così, vivere in Italia o a New York è come dover scegliere tra una Cinquecento ed una Mustang. Con la prima vai tranquillo e ti godi il panorama facendo il fighetto, con la seconda vai forte e tutti si voltano a guardarti perché stai facendo un gran casino. Professionalmente, New York è insaziabile, non ha limiti e non te ne impone. Si è circondati da squali, è vero, ma se sopravvivi ti viene data una chance di unirti a loro. Sono giovane e dunque in Italia faccio parte della minoranza, che solitamente viene classificata come la fascia di protesta arrabbiata col sistema. Io invece più che al concetto di protesta sono interessato a quello di prossimità, l’idea che si possa rendere l’Italia un paese non escludente ma esclusivo nella qualità del lavoro. Inoltre senza la mia italianità forse non sarei stato apprezzato da BIG e da New York. Uno dei migliori complimenti che mi abbiano fatto qui fu ‘Daniele, as all the Italians you are lazy, that’s why you are smart’. Me lo disse un team-leader tedesco….ora che ci penso non so se fosse un vero complimento… ma appunto sono italiano e l’ho preso come tale”.
New York è una città che continua a cambiare. Come sarà la New York del futuro e su che cosa si punta dal punto di vista urbanistico ed architettonico?
“Penso che il futuro sia qualcosa di relativo in questo ambito. Venezia, una città galleggiante, sembra già qualcosa di futuristico anche se ha una bella età. L’intelligenza artificiale, la sharing economy e i grandi colossi del tech stanno impattando il modo in cui viviamo in modo strabiliante. Uber, Airbnb, WeWork, Tesla, Google modificano lentamente anche il modo in cui ci muoviamo, la nostra dimensione urbana e le offerte del mercato immobiliare, quindi le richieste progettuali. Ci sono sempre più urban farm sui roof top di Manhattan. Se immaginassimo di far visitare New Yorj a qualcuno che non l’ha mai vista nemmeno in foto penserebbe di essere finito in una science-fiction. New York, meglio di altre città, riesce a modellarsi alla stessa velocità dell’evoluzione delle persone che la abitano. Ad esempio, Il grattacielo così come lo conosciamo oggi, sta già scomparendo, il progetto VIA 57 di BIG ne è un esempio. La città sta diventando anche sotterranea: è incredibile, si iniziano a riprogettare le vie della metropolitana in disuso per farle diventare il framework di nuovi spazi comuni. New York è la città dove chiunque, anche le tartarughe ninja, che il sottosuolo lo abitavano da tempo, può essere pioniere di una tendenza urbana. Una immagine di infrastruttura veicolare simile a quella che avremo presto in futuro è forse il sistema driveless visto nel film Minority report”.
Sarà una città più sostenibile, sul modello di alcune città scandinave?
“Sostenibilità è un altra parola da vaso di pandora. Forse esiste una ricetta alla sostenibilità in architettura: budget più sostanziosi, materiali più economici, clienti più coraggiosi, architetti più informati e regolamentazioni edilizie più flessibili. Uno scenario alla Matrix insomma dove tutto è possibile ma niente è reale. Il Nord Europa può permettersi di essere parte di questo sistema per un regime di ricchezza elevato, per delle politiche lungimiranti e per una demografia contenuta, ma anche qui andrebbe capito se questa sostenibilità ambientale è poi economicamente sostenibile nel tempo. Il vero motore di New York in questo momento non è la sostenibilità quanto il mercato del digitale applicato al mondo fisico degli edifici. Tutto divento più smart ma non per questo meno inquinante. Vedo però una maggiore attenzione alle certificazioni energetiche degli edifici, il mercato comincia a riconoscerne il valore e questo è un bene per tutti”.
Quale ruolo assegni all’architetto e qual è il modello di architettura a cui ti ispiri?
“Nel trailer di Dr. Strange, l’ultimo film della Marvel , il protagonista si rende conto di poter ‘imbrigliare le energie per modificare la realtà’ cambiando forma a dei palazzi o a delle intere città. Tolti gli effetti speciali, il budget del film, e il mantello rosso del protagonista, l’architetto è una sorta di Dr Strange. Canalizzando energie, domande e necessità del cliente e della comunità è possibile modificare gli spazi in cui viviamo negli spazi in cui vorremmo vivere. Come l’Audi parla di tecnologia al servizio dell’uomo e non di automobili, così gli architetti non dovrebbero parlare di palazzi ma di come esplorare le infinite possibilità dell’interazione umana attraverso gli spazi. Quello di BIG è un approccio follemente creativo, ed è efficace, da loro ho imparato molto. Invece che yes is more, il mantra ripetuto dal fondatore di BIG, io preferisco pensare a yes with less, l’idea che si possano creare opere iconiche, amate e focalizzate su chi le vive senza necessariamente avere un budget gigantesco. Non comprendo poi una certa tendenza che porta a filosofeggiare in modo snob su questo mestiere, io la chiamo hIpSteria. Preferisco un approccio più aziendale che accademico, la cosa che veramente conta alla fine è comunicare il progetto per costruirlo. Se un cliente preferisce un progetto mediocre alla figata che pensi di aver ideato, forse non l’hai comunicata bene”.
La New York che vivi dal punto di vista umano e professionale. Quali sono i luoghi che ti appartengono?
“A Chelsea nei clubs sembra di essere in un circo, East Village per i pub, Dumbo per le lunghe passeggiate, Financial District per il lavoro con panino obbligato, il venerdì da Pisillo, Williamsburg per il brunch, e Bed Stuy per le serate Netflix, Chinatown e Soho per i weekend esplorativi. Non amo Central park; ci sono andato poche volte sperando di incontrare Woody Allen ma purtroppo ho visto passare solo un attore secondario di Billions”.
Quale quartiere subirà a New York la prossima gentrification?
“Bed Stuy fra qualche anno diverrà famosa come l’ex zona pericolosa. Ho vissuto lì ed è cambiata tantissimo in pochi mesi. Le etnie cominciano ad amalgamarsi e ho conosciuto molti europei che vivevano in zona”.
Puoi parlarci del progetto a cui stai lavorando?

“BIG U è un sistema di protezione da allagamenti su larga scala e integrato, per indirizzare la vulnerabilità di New York City a inondazioni costiere. Il progetto propone un nastro protettivo nella parte meridionale di Manhattan utilizzando una serie di corsie sopraelevate e altre misure per creare spazi pubblici lungo il corso d’acqua. Big U è un esempio di cosa si intende per Infrastruttura sociale. La High Line mostra come una parte dismessa di un’infrastruttura – la ferrovia sopraelevata abbandonata – può essere trasformata in uno spazio pubblico e in un paesaggio verde. Ci siamo chiesti come sviluppare una infrastruttura di protezione per Lower Manhattan in modo che non fosse un muro, una barriera tra la città e l’acqua, ma che fosse piuttosto una sequenza di infrastrutture sociali e ambientali su misura per i quartieri interessati, utili anche per proteggere il loro hinterland dalle inondazioni”.
La tua Italia, la tua Calabria. Cosa hai lasciato e cosa ami ritrovare quando torni. Cosa ti manca?
“Una cosa interessante del dialetto calabrese è che non possiede il futuro dei verbi. O qualcosa si faceva o si fa, ma non si farà mai. Questo caratterizza un po’ l’essenza della regione. È una terra primitiva in senso positivo, è come tutte le cose primordiali resiste un modo puro di esprimere i sentimenti, la felicità, l’ospitalità e purtroppo delle volte anche la violenza. Ho lasciato una famiglia, una fidanzata, il mare ed il sole, che sono le cose che amo ritrovare e dalle quali vorrei ritornare. L’Italia è colma di opportunità ma accedervi è più macchinoso e delle volte il gioco non vale la candela. Qui a New York comunque ho trovato molti italiani interessanti, ci lamentiamo meno quando siamo fuori dalla nazione o almeno ci lamentiamo delle stesse cose”.
Tipo?
“Ci sono dei cliché come il cibo, la cultura, la famiglia. La politica ad esempio appassiona di più da fuori penso che sia dovuto al fatto che il nostro ozio in patria, nei confronti di alcune ingiustizie tipicamente italiane, trovi giustificazione nella frase ‘stiamo all’estero’. Rimaniamo così dei supporter politici dal coraggio impunito perché alla fine le vere sfide che l’italia offre vanno vinte sul campo”.
Qual è l’altra faccia di New York che spesso non si conosce?
“Lo stile di vita alla Sex and the City è l’idea che si ha di New York in genere. Invece New York è una città che sa anche essere molto dura. Noto ancora discriminazioni razziali e la povertà è visibile per le strade. Ho ricevuto molte pressioni sul lavoro e la competizione è spietata. Ho notato anche che nel Financial District ci sono pochissime panchine: rilassarsi è proibito. Bisogna lasciarsi andare al ritmo caotico della città. Lavorare per 120 ore a settimana può essere estenuante. Ancora più distruttivo è cenare in azienda, il cibo è orribile. Ma poi, la notte, uscito dall’ufficio, arriva il taxi, si attraversa il ponte di Brooklyn e quando ci si ritrova di fronte a quel panorama per un po’ si dimentica la stanchezza. Non appena sento I am Cindy Kanion dal televisore del taxi di solito mi addormento e mi dimentico tutto”.
Qual è la cittá del futuro dal punto di vista urbanistico?
“La Silicon Valley è una città composta da piccole aziende che vivono già il futuro e che cercano mercato per renderlo fruibile su vasta scala, Sarebbe super interessante far parte della commissione urbanistica di quella giungla di innovazione. I videogames e i libri di fantascienza spesso profetizzano il futuro e ci azzeccano, la città del futuro è dunque quella che verrà creata sulla luna con dei moduli spaziali stampati in 3d che sta progettando Foster and Partners per la Agenzia Spaziale Europea. In fondo il futuro è già qui”.