Era il 1991 quando Mimmo Roselli annunciò all’ospedale di Prato, dove lavorava, che quel giorno avrebbe lasciato il servizio medico per dedicarsi alla sua vera vocazione: l’arte. “Fin da piccolo ho sempre disegnato, ma i miei genitori quando gli proposi l’accademia inorridirono. Scelsi medicina, perché mi interessava, ma feci con loro un compromesso: avrei lasciato questo lavoro dopo un certo tempo e avrei fatto l’artista. Così è stato”.
Un’arte minimale, quella di Roselli, dove il bianco delle tele si lascia incidere da solchi sullo stesso tono, mentre la carta fa da sfondo ad acquerelli colorati che disegnano profili sospesi, mentre decine di metri di corde ridisegnano spazi e luoghi. Questo è il linguaggio estetico di Mimmo Roselli, essenziale e raffinato. La Casa Zerilli-Marimò della New York University ha lasciato che, fino al 18 ottobre, il suo giardino diventasse lo spazio per l’ultima installazione dell’artista toscano, intitolata NYC e ispirata proprio dalla vitalità della metropoli americana. Sulle pareti del patio interno dialogano gli oli su tela rigorosamente bianchi e i 130 acquerelli intitolati Il gigante buono, forse una citazione autobiografica vista l’altezza del suo ideatore.
Roselli però non è solo artista da esposizione, anche se la Biennale di Venezia nel 2013 gli ha concesso i suoi giardini per farne un reticolo di corde che dall’interno dell’esposizione raggiungesse la gente, i giardini pubblici di Sant’Elena. Da oltre trent’anni assieme ad un francescano ha realizzato una scuola d’arte di base in tre villaggi Guaranì nel Chaco boliviano e quest’anno a Santa Rosa, un paesetto di seicento anime, ha ideato un festival artistico raccontato dal documentario Giorni di Santa Rosa, presentato nella sua versione promo lo scorso martedì sempre alla Casa Italiana NYU, con il regista Fernando Maraghini.
Perché ancora New York?
“Perché questa è una città che sa cambiare, è una città in movimento, anche se i fasti anni degli anni ‘70 non ci sono. Io la frequento dal 1998 e vi ho realizzato tante mostre, persino al MoMA dove un collezionista ha prestato una mia opera a mia insaputa. Non ho mai vissuto la città da turista, forse perché le mostre e i lavori che vi ho realizzato mi hanno fatto vivere da compenetrato nella sua vita reale e in fondo New York mi appartiene un po’”.
Il tuo legame con la città è testimoniato anche dal lavoro con la comunità di Brooklyn. Proprio nel 1998 scegliesti con loro un posto dove realizzare un’istallazione. Perché ti affascinano i luoghi pubblici?
“L’arte deve essere qualcosa di quotidiano e non un evento legato a cose straordinarie. In passato l’arte e l’artigiano si confondevano tra la gente e le botteghe degli artisti erano frequentate, stavano sulla strada e tutti potevano vedere quello che si realizzava. Questo afflato con la comunità, con i suoi interessi mi ha spinto a creare con la gente di Brooklyn un’istallazione in luogo pubblico. A me piace lavorare con la gente perché hai sempre da trarre insegnamenti da loro, dal fare insieme. Si spera di dare qualcosa e invece si impara tanto”.
Ti è accaduto lo stesso in Bolivia con il popolo Guaranì?
“Sono un popolo molto accogliente e sono persone con una grande capacità di stare al loro posto, con dignità, ben strutturate. Mi ha colpito il fatto che per prendere una decisione devono essere tutti d’accordo e non è una semplice democrazia ma l’aver maturato un senso comunitario elevato. Vado da loro ogni anno da oltre trent’anni e stiamo ristrutturando, assieme ad una fondazione svizzera, un’antica missione francescana dove far nascere una scuola superiore di arte e musica, riconosciuta anche dal governo. Le tre scuole aperte finora sono tutte gratuite e private, mentre ora vorremmo degli insegnanti fissi forniti dal Ministero dell’istruzione e noi da parte nostra garantiremo degli stage con artisti e musicisti di tutto il mondo per offrire ai ragazzi tutte le opportunità di lavoro possibili”.
E il Festival artistico di Santa Rosa nasce in continuità con quest’idea?
“L’idea è venuta lo scorso anno e in aprile-maggio lo abbiamo realizzato. Il documentario che lo racconta dà voce agli artisti che vi hanno partecipato con l’arte visuale, la musica e il teatro. Il tema era legato al luogo e cioè ogni artista doveva realizzare opere con materiale locale e cioè rifiuti, argilla, colori ricavati da piante e pietre. Un’artista giapponese Yoko Inoue ha lavorato con le donne nella scuola di artigianato e tessuto portando avanti un progetto mondiale: la realizzazione di una catena di anelli mondiale. Iniziata già in altri Paesi, anche in questo villaggio ha riscosso successo perché dietro ogni anello c’è una storia di persone e un messaggio socio-politico”.
Come hai convinto questi artisti a dir di sì?
“Stare a contatto con una vera popolazione indigena, che ha davvero mantenuto le sue caratteristiche di popolo, era anzitutto un’esperienza importante per loro e quindi gli ho fatto un favore. Anche tutto il villaggio ne ha ricevuto comunque un beneficio perché ha sperimentato nuovi linguaggi, nuovi incontri e ha aperto i propri confini”.
Nelle tue opere il concetto di confine torna spesso. Perché?
“La globalizzazione pretende che tutti la pensino allo stesso modo o si vestano o mangino secondo gli stessi standard quasi a pensare, erroneamente, ad una assenza di confini. I confini invece esistono e delimitano popolazioni diverse. Non dobbiamo immaginare posti lontani, anche a New York nella metro c’è il massimo della multiculturalità e c’è la massima attenzione a mantenere i confini, a non toccarsi, quasi a sottolineare un’incapacità a lasciarsi anche solo sfiorare dall’altro. Il confine resta per un posto di contatto tra culture dove quello che si crede consolidato non lo è più e l’incontro fa nascere sempre qualcosa di diverso. Il confine è un concetto di grande potenzialità e oggi invece si ha paura di questo contatto, vuoi per i terrorismi, vuoi per ragioni più profonde mentre invece c’è bisogno di mischiarsi. Pensare il confine è pensare ad un’apertura di possibilità”.
Cosa detta l’uso di linee e corde nelle tue opere?
“Più che di linee si tratta di incisioni vere e proprie nella preparazione della tela e che poi assorbiranno il colore che io do con il pennello, un colore molto liquido che queste linee assorbono. Questi tagli, che non sono quelli del dolore fontaniano, rappresentano nel mio mondo il passaggio dell’uomo sulla terra. Sono il suo cammino. Io l’ho voluto rimarcare in modo deciso e non cancellabile, quasi a dire che ognuno di noi lascia il suo segno a questo mondo e ogni segno lasciato è importante. Le mie pitture sono grandi paesaggi con grandi solchi di cammino”.
E le installazioni?
“Sono linee di corda che incidono lo spazio e che lo trasformano. Quando mi viene concesso un luogo, se è già occupato io lo lascio così come è, come ho fatto alla Casa Italiana Zerilli-Marimò e lo intreccio con le mie opere. Se c’è uno spazio vuoto invece, lo occupo con l’idea di mettere in luce tutte le possibilità offerte da quello spazio”.
Cosa vorresti che una persona di fronte a una tua istallazione o ad una tua opera si portasse con sé?
“Vorrei che la gente fosse incuriosita e non solo le élite del mondo dell’arte ma qualunque persona davanti a quel filo si chiedesse il perché della sua esistenza, da dove arriva, dove andrà, perché arriva qui. Vorrei che davanti a questo filo ciascuno fantasticasse un suo percorso magari da mettere a confronto con il mio ma che intanto fungesse da stimolo. L’arte per me resta un affare popolare”.