Alla Neue Galerie di New York si è da poco aperta una mostra che esplora il dialogo e il reciproco influsso tra uno dei padri dell’Espressionismo, Edvard Munch (1863-1944), e la generazione di artisti austro-tedeschi vissuti nei primi decenni del Novecento. Curata da Jill Lloyd, in collaborazione con il Munch Museum di Oslo, la mostra presenta ottantacinque opere, tra dipinti e grafiche, alcune delle quali non sono mai state viste a New York. Il percorso si snoda attraverso quattro “stanze” tematiche che illustrano gli aspetti più significativi di questo dialogo, a volte anche conflittuale, nato dal bisogno di esprimere lo spaesamento e il profondo disagio dell’animo umano di fronte all’affermarsi di una società capitalista sempre più massificata, alienante e militarista.

Come un preludio introduttivo alla mostra, ci accoglie l’Autoritratto con scheletro (1895) di Munch: dallo sfondo nero affiora l’inquietante volto del giovane artista, precocemente invecchiato, lo sguardo fisso nel vuoto, con alla base lo scheletro di un braccio, richiamo alla fugacità dell’esistenza ossessivamente presente nell’opera di Munch, la cui vita fu segnata da un’interminabile catena di lutti e da episodi di pazzia sua e dei suoi familiari.
La prima stanza, Incisione Sperimentale, dedicata alla grafica, in particolare la xilografia, rappresenta uno dei momenti più alti e intensi dello scambio tra il maestro norvegese e il gruppo di espressionisti della “Brücke” formato da Emil Nolde, Erich Heckel, Ernst Ludwig Kirchner, Karl Schmidt-Rottluff. Deformazioni espressive al limite del grottesco, teatralizzazione dei gesti, forti contrasti intensificati da colori acidi e corrosivi sono alcuni degli elementi visivi più usati.
Le opere, allestite su due file sovrapposte, esaltano la predilezione per i lavori seriali secondo una pratica molto diffusa tra gli artisti contemporanei, si pensi a Claude Monet e a Giorgio Morandi (attualmente in mostra al Center for Italian Modern Art). Un esempio è la celebre serie della Madonna di Munch (1895/1902), realizzata con tecniche diverse, accomunate dalla centralità iconica della figura femminile, seducente e demoniaca, espressione di fertilità (gli spermatozoi nuotanti nella cornice) e contemporaneamente di morte (lo scheletro sul margine inferiore). Anche Giovane danese di Nolde (1913), connotata dalle dissonanti tinte del maquillage e da una fissità tipica da idolo africano, è riproposta in quattro varianti differenti. Completa la stanza, una bacheca contenente alcune lettere e fotografie, oltre la monografia sulla grafica munchiana di Gustav Schiefler apprezzata e diffusa nella cerchia espressionista.

La seconda stanza, Munch e gli espressionisti in dialogo, riunisce paesaggi e ritratti a grandezza naturale di alcuni artisti austro-tedeschi in dialogo con quelli di Munch. In Pubertà di Munch (1894/1915 ca.), un’adolescente nuda, seduta pudicamente sul letto sfatto con un’ombra alle sue spalle, condensa tutto il disagio per le trasformazioni che la pubertà comporta e per il suo destino forzato di amante e di madre; Ragazza con bambola (1910) di Heckel rivela la stessa enigmatica ambivalenza: anche qui una giovane donna svestita distesa sul letto con una bambola sulle ginocchia e un paio di calze nere nel margine sinistro, rilegge il tema munchiano senza scordarsi l’Olimpia di Manet.
Altro tema caro a Munch e condiviso dagli espressionisti riguarda il desiderio di rifugiarsi nella natura in risposta all’urbanizzazione industriale come documentano i Bagnanti immersi in un ambiente incontaminato; o i paesaggi naturali non deturpati dal progresso, intesi come paesaggi dell’anima, schermi su cui proiettare il travaglio interiore, resi con ampie colate di colore strutturate per fasce sovrapposte, prospettive distorte, e pervasi da un sottile senso di turbamento, oltre che di profondo misticismo: The Blue Gable (1911) di Gabriele Münter, l’unica donna artista qui presente, si avvale delle stesse coordinate espressive e figurative di Paesaggio invernale, Elgersburg di Munch (1906).

La terza stanza, Influenze e affinità, riprende il tema delle affinità tematiche ed espressive, declinate non solo come influenze reciproche, ma come profonda consonanza al medesimo clima culturale di angoscia e di introspezione, riconducibile al contesto espressionista. Dresda, scena di strada (1908) di Kirchner accostato a una riproduzione del dipinto Famiglia sulla strada, che Munch espose nel 1906 a Dresda, sono gli esempi di una sintonia spirituale dove l’ambiente metropolitano rispecchia lo spaesamento davanti alla folla anonima, anche se popolata da numerose figure femminili vestite alla moda e vistosamente truccate.
Lo stesso sentimento di solitudine si respira nel dipinto Due esseri umani. I solitari di Munch (1905) dove un uomo abbigliato di nero e una donna in bianco, forse amanti, contemplano l’orizzonte chiusi nella loro incomunicabilità; e lo ritroviamo anche in Separazione che ci descrive la disperazione di un uomo che afferra il suo cuore sanguinante mentre una figura femminile in bianco, quasi uno spettro, imbocca una direzione opposta.
Se in Munch l’amore si configura spesso come trauma dell’abbandono o presenza spettrale, nell’opera del viennese Egon Schiele è invece presente nel suo carnale realismo. In Uomo e donna (1914), in un interno domestico un uomo e una donna giacciono contorti in una nudità oscena, lo spazio è opprimente e senza vie di fuga delimitato dal lenzuolo giallo spiegazzato, il taglio del piano vertiginoso. Chiude simbolicamente la stanza una serie straordinaria di autoritratti, altro tema clou dell’espressionismo, firmati da Munch, Richard Gerstl, Ludwig Meidner e Max Beckmann, giocati sulla potenza del colore e resi ancor più drammatici dalle tonalità incandescenti e dalla frantumazione della forma che sottolinea l’isolamento psicologico che li pervade.

Ma è nella quarta e ultima stanza dedicata al famosissimo Urlo (1895) che l’autobiografismo è celebrato nelle sue valenze più drammatiche: icona pop di alienazione, manifesto dell’angoscia esistenziale, il volto scarnificato, gli occhi sbarrati, la bocca spalancata in una smorfia di dolore, le mani a coprire le orecchie e ostentare l’orrore del frastuono del mondo. Protagonista è lo splendido pastello del 1895, che da solo vale una visita alla mostra, e prende spunto da una circostanza autobiografica, come racconta la didascalia: “I was walking along the road with two friends. / The Sun was setting – the Sky turned blood-red. / And I felt a wave of Sadness – I paused tired to Death – Above the blue-black / Fjord and City Blood and Flaming tongues hovered / My friends walked on – I stayed behind – quaking with Angst – I felt the great Scream in Nature”. A fare da contrappunto tre impressionanti autoritratti di Schiele degli anni Dieci e l’incisione Man in Pain (1917) di Heckel, dove lo shock della guerra si dilata in tragica espressione del vivere contemporaneo.
Nicol Mocchi è una fellow del CIMA per l’anno 2015-16.