Tutta vestita di nero, con una lunga gonna leggera alle caviglie, Marlene-Luce Tremblay ha intorno a sé un'aura mistica mentre si muove con grazia nel suo piccolo monolocale, un accogliente rifugio nascosto dentro Tudor City. Proprio come nelle sue opere d'arte, le tonalità scure della sua figura contrastano con le vibranti raffiche di colore che punteggiano l'ambiente. Lampade da tavolo riempiono il suggestivo spazio di un caldo e intimo bagliore. Appese alle pareti color crema e appoggiate alla credenza in legno, ci sono le sue tele, dipinte con tonalità vivaci di rosso, oro, blu. Una raffigura un paesaggio urbano occidentale. Un'altra il Palazzo Alhambra in Spagna e le misteriose sembianze di una donna nepalese.
Sorseggiamo vino bianco sul dolce sottofondo delle rilassanti note jazz dell'album di Diana Krall, The Look of Love. Marlene se ne sta seduta comodamente sul suo sontuoso letto; io siedo sul divano di fronte a lei, mentre mi racconta la sua storia.
Dall'esplorazione del Medio Oriente al rimettere radici a New York, fino ad attraversare un doloroso divorzio e sopravvivere al cancro, Marlene è una donna che ha usato la sua arte per superare le difficoltà. Con opere esposte a Montreal, Parigi, Londra, New York, Tunisi e Algeri, il lavoro di Marlene non solo attraversa i confini internazionali, ma offre agli spettatori una visione intensamente trascendentale del mondo, al confine con il surreale. “Quando mi immergo nella mia arte, è come una terapia. Mi dà la vita”, dice.
La sua storia di artista a New York ha inizio nel 2009 quando, a seguito della fine del suo matrimonio, si trasferisce da Montreal, in Canada, a Manhattan, per lavorare alle Nazioni Unite. Di giorno, lavora nell'ufficio del Portavoce e prepara rassegne stampa per il segretario generale, un buon compromesso, data la sua formazione in Scienze Politiche. Di sera, la pittrice e fotografa di fine art alimenta la sua vera passione: pintography.
Si tratta di un processo unico nel suo genere. Consiste nel fotografare persone, oggetti e paesaggi, e poi, al computer, aggiungere pigmentazioni sulle fotografie in bianco e nero che lei stessa crea e visualizza, per poi ingrandire l'immagine e riprodurla su tela. Le scansioni sono già molto belle di per se, ma l'effetto desiderato non si ottiene fino a quando la tela non viene dipinta con acrilici o oli, una tecnica che accentua le particolari sfumature di colore che Marlene seleziona per realizzare la sua visione unica. “Con le pitture faccio risaltare il colore, e la composizione prende vita”, spiega.
Oggi, il suo laboratorio è il suo computer e il suo studio il confortevole angolo del suo appartamento dove ama dipingere, ma non è sempre stato così. Quando viveva a Montreal, Marlene lavorava come artista a tempo pieno e scattava solo fotografie in pellicola. Il trasferimento a New York City ha richiesto un adeguamento della sua prassi creativa. Senza il lusso di poter avere un proprio laboratorio per sviluppare le stampe, l'artista è stata costretta ad abbandonare la sua preziosa fotocamera 35 millimetri e con riluttanza ha acquistato una digitale. “Non volevo fare fotografia digitale, per me esisteva solo la pellicola. Ma non avevo scelta” dice. Con la sua nuova macchina fotografica al seguito, si è iscritta ad un paio di classi di fotografia digitale all'International Center of Photography.
Durante i fine settimana, quando non era impegnata con il suo lavoro di rassegna stampa per il segretario generale, passeggiava per la città e con la sua macchina fotografica digitale cominciò a fotografare ciò che la circondava. “Ho trovato ispirazione nel paesaggio urbano, l'architettura miscelata con il paesaggio. Gli alberi, con gli uccellini, che fioriscono nel mezzo di una città di cemento”.
La sua fascinazione per gli spazi verdi di New York è brillantemente catturata in opere come Safari Green e Cobalt Blue Fern, Pink Flamingo on 42nd Street e Sunny Gold on the Hudson. Anche se non ama la fotografia a colori, l'artista non si fa intimidire dai pigmenti. Al contrario, dal blu cobalto, al verde neon e al fucsia, fino all'oro caldo e al rosso cremisi, le sue oniriche pintographs si infiammano di ipnotiche esplosioni di colore, giustapposte alle ombre scure del soggetto rappresentato. “È tutta una questione di luci e ombre. Vedo un albero e riesco già a visualizzare come ho intenzione di dipingerlo. È qualcosa che nasce dentro di me e trabocca verso il mondo esterno”.
Non sorprende che sia così attratta da alberi e fiori che sbocciano in tutta la città, a dispetto del tutt'altro che ideale habitat urbano. Nonostante i gas di scarico dei taxi e l'inquinamento che contamina l'aria, la flora riesce a prosperare nei pochi ma preziosi spazi verdi di questa metropoli. Dopo il trasferimento, da sola, a Manhattan e un'inaspettata diagnosi di cancro nel 2009, Marlene ha dovuto superare i cambiamenti forzati dalle circostanze per sopravvivere.
“Quando ti capita una cosa del genere, ti sconvolge. Il medico ti dice che hai un cancro e la prima cosa che pensi è, 'ok, sto per morire.' Alla mente affiorano tante di quelle domande esistenziali, ti chiedi cosa davvero conti nella vita”.
In quel difficile periodo Marlene scoprì il conforto dell'amicizia di chi le stava vicino, sia a New York City che dall'altra parte dell'oceano. “Voglio raccontarti della mia amica Faye” mi dice. Forse è vero che i nomi rivelano la natura intrinseca delle persone. Il nome Faye deriva dall'inglese medio (l'inglese dell'inizio del secondo millennio, n.d.r.) “faie” che significa fata e la storia che mi racconta Marlene spiega perché è un nome appropriato. “Lei vive in Inghilterra. Quando le dissi della cattiva notizia mi chiese se avessi qualcuno con me. Dissi di no, che non volevo nessuno. Vivo in un appartamento molto piccolo, e mi sentivo a disagio. Pochi giorni dopo Faye mi chiamò e disse: 'Sto arrivando'. Arrivò in aereo dall'Inghilterra per stare con me”. Un sorriso dolce illumina il volto di Marlene mentre ricorda il bel gesto dell'amica.
La visita di Faye a New York ha dato avvio a una tradizione tra le amiche di Marlene, che ancora oggi continuano ad onorare. Prima che Faye tornasse in Inghilterra organizzarono una cena che intitolarono: “Per la vita e l'amicizia”. Ora, ogni due mesi, Marlene e le sue amiche rivivono quel rituale. Ognuno porta un piatto diverso e insieme celebrano quei doni.
“Quell'esperienza mi ha fatto apprezzare molto di più le cose della vita. Mi sento più vicina alla gente. Vedo la bellezza della natura”, riflette. La sua vittoriosa lotta contro il cancro si manifesta nella natura trascendentale della sua opera, e se la multiforme Manhattan è la musa di Marlene, la città nutre anche un'altra delle sue passioni: popoli e culture. Ricchi, poveri, americani, europei, cattolici, musulmani, Marlene trova ispirazione nel persone che incontra tutti i giorni. “A New York la gente viene da tutti i ceti sociali. Posso applicare tale diversità alla mia fotografia perché è frutto di una visione individuale. Posso dipingere un albero di rosso o di blu, in base a come mi sento, e questa cosa mi piace”.
Nel suo lavoro c'è poi un'influenza araba che è impossibile ignorare. Uno dei temi ricorrenti della sua opera è l'accento sullo scambio multiculturale, in particolare tra l'Occidente e il mondo arabo.
Marlene ha viaggiato in lungo e in largo per il Medio Oriente. È stata in Siria e in Giordania, e nel 2004 è stata invitata in Egitto dal Governo per celebrare il 60° anniversario delle relazioni diplomatiche tra Canada ed Egitto. Quel viaggio ha segnato una svolta cruciale della carriera artistica di Marlene. “Quando sei in viaggio e vedi qualcosa per la prima volta, in quel momento viene fuori qualcosa di totalmente insolito. Durante quel viaggio in Egitto la mia creatività è impazzita”, dice. Fino a quel momento l'artista aveva esposto solo i suoi lavori in bianco e nero, ma la luce e le ombre che si proiettavano sulla sabbia e le antiche rovine egizie la ispirarono a visualizzare le cose a colori.
Marlene presentò le sue pintographs a Harrods, a Londra, nel 2005, in una mostra dal titolo Iconic Egypt and Beyond. Fu lì che incontrò la donna nepalese, quella dai tratti esotici e lo sguardo enigmatico. “Non so nemmeno come si chiama, ma ho pensato che sembrava la Monna Lisa”. Il suo ritratto appare in due delle creazioni più recenti dell'artista, Gift of Grace e Words of Grace. I due pezzi, del valore di 1.400 dollari l'uno, sono stati creati appositamente per essere donati in beneficenza ad un evento in sostegno delle vittime del terremoto del Nepal. Purtroppo, l'evento è stato annullato.
Entrambi i dipinti, uno dipinto in oro, l'altro in blu, ritraggono questa donna, per metà indiana per metà inglese, la cui immagine è sovrapposta a tratti calligrafici in arabo e immagini dell'architettura di Alhambra in Spagna. Il palazzo, che si trova su una collina che domina Granada, è stato costruito nel XIII secolo ed è un simbolo della società multiculturale della Spagna moresca. Con i suoi cortili, le cupole, i porticati, i giardini, i muqarnas e le iscrizioni arabe, questo capolavoro architettonico fu ritenuto a lungo una realizzazione fisica delle descrizioni del Paradiso nella poesia islamica medievale. “Ho fuso queste due immagini perché rappresenta un dialogo tra culture diverse, dagli aspetti più intimi a quelli più multiculturali dell'umanità”.
Dice Marlene che “quello che sta succedendo ora in Medio Oriente sta dando a tutto ciò che è arabo una connotazione negativa”, ma avendo viaggiato a lungo e avendo stretto tante amicizie durante le sue esplorazioni, Marlene ha avuto modo di rendersi conto che, per quanto la civiltà araba sia così diversa da quella occidentale, la gente ha tante cose in comune. “Siamo tutti umani. Il dolore è lo stesso. Tutti possiamo sentirlo, in modi diversi. Gioia, amore, dolore, non hanno nazionalità”.
Marlene vuole continuare a nutrire questo interscambio tra le culture. Il prossimo anno andrà in Marocco, dove sta organizzando una mostra con le sue amiche tunisine. “Ci chiamiamo The Dream Team. Veniamo da culture diverse, ma c'è una bella simbiosi quando esibiamo i nostri lavori insieme. C'è un dialogo tra la nostra arte”.
Sta preparando anche una mostra per gennaio, alla Galleria Ashok Jain nel centro di Manhattan. “A New York ho fatto un paio di mostre. Ma non è facile perché ci sono così tanti critici e anche un sacco di gente in competizione. Conosci il detto 'se ci riesci a New York puoi riuscirci dovunque'? È proprio vero”.
Nonostante il successo internazionale, Marlene è ancora un'artista emergente e non può fare affidamento sul suo solo lavoro artistico per sostentarsi. Spera di poter andare in pensione nel giro di due o tre anni, in modo da potersi dedicare completamente alla sua passione, l'arte. New York City si è dimostrata un'illimitata fonte di ispirazione per il suo lavoro. “Quadri di luce”, li chiama lei. E così Marlene incoraggia i suoi spettatori a guardare l'ambiente apparentemente grigio e a volte monotono che li circonda attraverso la prospettiva vibrante e surreale della sua caratteristica lente.
E per quanto riguarda la risposta a quella domanda esistenziale che si fece anni fa, cosa conta davvero nella vita, ha capito una cosa: “È l'amore, l'amore della gente, l'amore per la natura. L'amore è alla base di tutto. Quando te ne vai, quello che porti con te è l'amore. L'amore che hai dato, l'amore che hai ricevuto. Questo è stato il mio viaggio, e lo è ancora”.