Dopo il successo al Bronx Documentary Center di New York, il Museo di Roma in Trastevere ospita, fino al 28 settembre, la mostra di Gabriele Stabile, fotografo tornato dagli Stati Uniti con un progetto sui rifugiati in terra americana durato sette anni, The Refugee Hotel, la cui conclusione è nei 50 emozionanti scatti in bianco e nero e kodachrome esposti a Roma e raccolti nel suo libro.
I rifugiati hanno uno status particolare, sono persone che hanno lasciato il loro paese per sfuggire a guerre o persecuzioni (politiche, religiose, etniche, sessuali) e che subirebbero gravi danni se rimpatriati. Ogni anno gli Stati Uniti consentono l’ingresso a oltre 80.000 rifugiati che ricevono un sussidio e assistenza medica per un periodo determinato. Stabile, in collaborazione con l’Organizzazione Internazionale delle Migrazioni e altri gruppi umanitari, racconta con le sue foto il loro arrivo negli Stati Uniti, la loro prima notte nei motel vicino all’aeroporto, le loro sensazioni di paura, smarrimento o nostalgia. L'ho incontrato in un pomeriggio di inizio estate in cui si è offerto cortesemente di accompagnarmi alla mostra.
Raccontami del tuo progetto. Come e quando è iniziato?
È iniziato nel 2006 ed è finito nel 2012 con la pubblicazione di un libro. Le foto sono una sintesi della mia esperienza. Non mostrano qualcosa di brutale o cruento, c’è però molto sentimento. Ne ho dovute scegliere 160-170 per la mostra a New York e il libro e 50 per la mostra qui a Roma.
Come è strutturata la mostra?
Nella prima sala ci sono le foto dei rifugiati appena arrivati negli Stati Uniti, nel momento in cui mettono piede in America, la prima notte, le prime 24 ore. Nella seconda sala sono ritratti quelli che ho seguito e con cui sono rimasto in rapporto, lungo 6-7 anni, durante il loro processo di reinserimento. Per molti anni ho fotografato solo gli arrivi, quelli che fuggono da calamità reali, e arrivano in una stanza di hotel ai margini della zona dell’aeroporto, l’ambiente più ‘neutro’, secondo me, per eccellenza. Una ‘scatola’ che contiene tutti gli elementi base della nostra civiltà: la macchina per il caffè, il frigorifero, l’aria condizionata, la doccia, il materasso, la finestra e la porta. Il concentrato di quello che siamo e il modo in cui viviamo. Mi interessava vedere il rapporto tra queste persone e uno spazio del tutto diverso da quello a cui erano abituati.
Foto: Gabriele Stabile
Dopo 3-4 anni avevo stretto alcuni rapporti d’amicizia con loro. Tu sei la prima persona che incontrano in questo momento epico della loro vita, quello che gli spiega come funziona un telefono americano, il distributore di Coca-Cola etc. È il lavoro delle organizzazioni intergovernative ma hanno poche persone e arrivano molti rifugiati, alla fine finisci per essere coinvolto. Vedi gente che esce fuori dall’ascensore e non sa dove andare e tu gli indichi la stanza o gli spieghi come si usa la chiave elettronica. Quando fotografi ti rendi conto del loro sguardo naïf che ti contagia. Vedi la loro meraviglia davanti ai programmi televisivi americani. Ho cercato di cogliere questo scontro di stati d’animo, culture, giustapposizione di piani dell’esistenza.
Che tipo di aspettative e speranze nutrono i rifugiati?
Arrivano sull’onda di un grande entusiasmo. Il reinserimento in una realtà completamente diversa da quella di origine, come gli Stati Uniti d’America, è la terza e ultima opzione per i rifugiati in pericolo di vita. Le prime due opzioni sono o il reinserimento nel proprio paese di origine, oppure in un altro paese, ma nella stessa area geografica. Le autorità internazionali cercano di lasciare i profughi nel loro paese o in uno limitrofo, ovvero nei campi profughi. Per molte di queste persone si tratta di un momento epico, come lo è stato per i nostri migranti. Credono che sia la possibilità di un nuovo inizio ma la verità è che il reinserimento è molto difficile, soprattutto per le generazioni più grandi. I bambini, anche attraverso la scuola, si adattano più facilmente. In America si sente molto la differenza di classe sociale, lo status è una cosa seria e un innalzamento bisogna guadagnarselo, purtroppo queste persone partono da meno dieci. Gli adulti non si adattano mai in realtà. Ho visto molta depressione e molto disagio psicologico, più avanza l’età e più aumenta la consapevolezza che si morirà lontano da casa, ed è una pillola difficile da ingoiare.
Che tipo di rapporto hai avuto con loro e quali sono i loro riferimenti affettivi e sociali?

Foto: Gabriele Stabile
Per molti di questi gruppi etnici, per esempio quelli provenienti dal Sud-est asiatico o l’Africa dell’Ovest, le famiglie rappresentano ancora un nucleo funzionale forte. Con il reinserimento in una realtà difficile, come gli Stati Uniti, l’assetto familiare cambia moltissimo. I ragazzi hanno il compito fondamentale di ‘tradurre’ la nuova realtà, che può essere traumatica alle persone più grandi. Le famiglie, spesso, sono dei clan. Ho trascorso molto tempo con la famiglia di Sonzou, che è arrivato a Miami con il solo pigiama. Parlavamo in francese, lui asserisce di essere etiope ma parla swahili e altre lingue. La provenienza di molti rifugiati non è mai certa. Abbiamo continuato a sentirci al telefono e a contattarci su Facebook. Quando ha saputo del mio progetto e che stavo ricontattando i rifugiati mi ha invitato, insieme all’autrice del libro, in Alabama. Risiede in un vecchio porto commerciale che ha subito un declino economico clamoroso, con quartieri semi-residenziali abitati da rifugiati.

Foto: Gabriele Stabile
I contrasti sono fortissimi: i figli seguono la moda, portano i pantaloni a vita bassa e allo stesso tempo tra i connazionali di Sonzou vige ancora l’usanza di comprarsi la moglie. Ho visto il minore dei suoi figli andare da un padre con tre figlie per trattare l’acquisto di una moglie. Per noi è stato uno shock! Lui stesso, nonostante gli ripetevo che ero sposato, continuava a cercare di piazzarmi una delle sue figlie. Sonzou ha molti figli che fanno musica insieme e una moglie, Rebecca, fantastica, enorme, la grande madre Africa. L’ha acquistata ma l’ho visto tragicamente preoccupato una sera che stava tardando. Lei era a Dallas a suonare con i suoi figli, nel circuito dei predicatori africani, ed aveva avuto un contrattempo. Quando Rebecca è arrivata si sono abbracciati e hanno pianto insieme per la gioia. Questo è stato un importante insegnamento per me: una moglie acquistata non è detto che non sia amata. Quello che abbiamo nella nostra mente è in realtà una riduzione della complessità dell’esistenza.
Come è iniziata la tua passione per la fotografia?
A me piaceva suonare la chitarra, ho fatto il Dams, avevo fretta di conoscere il mondo, essere indipendente. Ebbi la fortuna, il giorno stesso in cui mi sono laureato, di incontrare un amico che lavorava in Rai e mi disse che era rimasta scoperta una posizione in un programma che doveva iniziare dopo una settimana. È stato il mio lavoro, a Rai2, per 7 anni, dopo i quali ero però scontento, i programmi in cui lavoravo mi piacevano sempre di meno. Mia moglie e mio padre mi hanno aiutato a scuotermi, mi hanno fatto riflettere su cosa stavo diventando. Quindi sono andato alla Rai, nonostante fosse una dipendenza ‘aurea’, e ho detto che non ce la facevo più. Fu mia moglie a suggerirmi di dedicarmi alla fotografia, mise insieme il portfolio che presentai all'International Center of Photography di New York. Fui accettato dalla scuola e iniziai il corso e solo a dicembre scorso sono rientrato in Italia.
Come è iniziato questo progetto così particolare?

Foto: Gabriele Stabile
A scuola mi hanno spinto a prendere in carico un progetto di medio termine. Un giorno sul giornale ho letto degli articoli sui rifugiati, sull’assistenza spontanea che i volontari offrono in questi alberghi dove arrivano, portando coperte o altri generi. Mi interessava il concetto di dramma classico, l’unità aristotelica: di spazio, luogo e tempo in cui le cose accadono e come i rifugiati si rapportavano al nostro mondo, in un tempo così concentrato, tutto accade in una stanza di albergo nell’arco di 24 ore.
Qual è la differenza tra questa mostra e quella di settembre scorso a New York?
A New York la mostra è stata realizzata al Bronx Documentary Center, dove vengono esposti esclusivamente progetti documentari. È uno spazio molto più ampio che mi ha consentito di esporre più foto. Il Centro predilige storie che riguardano la sua area e il Bronx assorbe molti rifugiati. In Italia arrivano i barconi, situazioni più brutali, questo tipo di immigrazione è diversa, è denominata “goccia a goccia” e segue un iter burocratico internazionale. Le foto sono state scattate in Alabama, Charlottesville, Miami, Fargo, Minneapolis etc.
Le ultime foto sono quelle a cui tieni di più, perché?
Due foto sono state scattate a Fargo, un luogo piatto senza soluzione di continuità, dove fa un freddo terribile. La famiglia che dovevo fotografare non era molto ospitale, nonostante i precedenti contatti, alla fine ho capito che ciò era dovuto all’assenza degli uomini di famiglia che erano tutti a lavorare. Poi per fortuna sono arrivati i ragazzi, uno di questi ha comunicato a tutti che era arrivato il premio di una lotteria, a cui avevano partecipato: 20 dollari di buono spesa inviato per posta. Erano contentissimi e subito hanno fatto festa. La foto con la bambina esprime la gioia di quella vincita.
Hai scattato in bianco e nero e kodachrome, come mai questa scelta?

Foto: Gabriele Stabile
Il kodachrome è praticamente sparito dalla circolazione. Le foto in bianco e nero non sono dovute solo alla scelta del rullino ma anche all’esposizione e ai tempi di sviluppo.
Come mai alcune foto sembrano “sgranate”?
A me sono sempre piaciute le foto sgranate: ho “spinto” i rullini a morte. La grana sta uscendo molto di più in questa mostra che in quella americana.
Come è nata l’idea del libro?
Juliette (Co-autrice del libro, nda) mi ha aiutato a dare un filo conduttore al mio lavoro. All’inizio volevo fare un libro di fotografia ma ho verificato che avrei dovuto anticiparne tutti i costi e questa idea non mi piaceva. Ho vissuto quattro anni a Brooklyn (poi mi sono trasferito a Manhattan) e, all’epoca, acquistavo il Greenpoint Gazette, che era praticamente il giornale locale, fatto benissimo. Il tema di fondo di questo giornale è nel nome: Greenpoint, ovvero il quartiere più a nord di Brooklyn. Dopo Greenpoint c’è un fiumiciattolo, Newtown Creek, pieno di sostanze nocive che divide Brooklyn e il Queens. Attorno a questo fiume l’incidenza di cancro è molto alta e molti dei residenti si ammalano facilmente perché molte industrie a ridosso del fiume gettano nelle sue acque i loro rifiuti, chimici e tossici che impregnano le falde. Gli stessi residenti però cercano di occultare la vicenda perché temono la svalutazione delle loro case. Avevo pensato di scriverci un libro, sono andato perfino con un kayak lungo il suo corso. Un giorno ho telefonato al Greenpoint Gazette per parlarne, scoprendo che in realtà il giornale era realizzato da una persona: Juliet Linderman, una ragazza appena laureata, un’autentica intellettuale. Lei respinse l’idea ma si offrì di aiutarmi nel mio progetto fotografico, conosceva l’editore giusto che ha investito per la pubblicazione e abbiamo raccolto altri soldi, per portarlo a termine, attraverso un’operazione di crowdfunding.
Ti senti più italiano o americano?
Mi sento italiano, soprattutto romano.
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