Sopra Luca Bracali davanti ad alcune sue opere.
Mai sentito parlare di un Bracali? No? Eppure le opere, come l’autore, stanno facendo il giro del mondo.
Nessuna esagerazione, Luca Bracali, in arte fotografo, nasce a Pontelungo (Pistoia) 45 anni fa ma negli ultimi vent’anni ha toccato in lungo e in largo gli angoli più remoti del pianeta: dal freddo della Mongolia alle isole Svalbard in Norvegia, dalla Repubblica di Botswana nell’Africa Meridionale allo Yucon.
Unico reporter al mondo a raggiungere il Polo Nord nell’Aprile 2009 quando affronta 80 chilometri di trekking sciistico in otto giorni di totale autosufficienza alimentare e logistica a temperature costanti di -50°C, Bracali dedica particolare attenzione alle problematiche ecologiche legate alle zone del circolo polare artico.
Ma come ci è arrivato questo giovane Ambrogio Fogar agli estremi del pianeta Terra?
Lo chiediamo direttamente a lui e senza neanche dover arrivare in Alaska per intervistarlo perché in questi giorni si trova proprio qui a New York, rappresentato nella collettiva “Altered States of Reality”, fino al 7 Maggio all’Agora Gallery (530 West 25th Street).
Il sangue toscano non mente, mezzo secondo dopo le presentazioni di passa al “tu” e Luca acconsente di buon grado a scambiare due parole con noi:
Nasci in realtà come fotografo sportivo, come avviene la svolta che ti porta a documentare luoghi spesso inavvicinabili all’occhio umano?
«Vedo che ti sei informata! Sì, il mio sogno era quello di fotografare il campione di moto mondiale Freddie Spencer e mi hanno detto che l’unico modo per entrare in pista era quello di diventare fotoreporter. Dopo un po’ ho realizzato che tra fotografare una moto, una donna o l’aurora boreale, preferivo decisamente quest’ultima».
Questo di New York si può dire il tuo debutto sulla scena internazionale e, per quello che posso vedere questa sera all’opening ufficiale, la mostra sta andando molto bene. In che modo sei approdato a NY?
«Angela Di Bello, la curatrice di questa esposizione mi ha rintracciato tramite web. Negli ultimi mesi ho preso parte alla prima edizione del Fabriano Photo Festival alla Pinacoteca di Fabriano dove, per la prima volta nella storia della fotografia, due mastri cartai hanno tirato a mano i miei scatti su carta cotone Canson, una carta che dura 150 anni perché –Bracali ci sorride ironico- le mie fotografie devono durare altrettanto! Sempre a Marzo ho esposto al Photoshow di Roma come testimonial della carta Canson»
Detto questo non abbiamo il tempo di formulare la domanda successiva che Luca Bracali di sua iniziativa aggiunge:
«Non ritocco niente. Sono un purista nell’arte come nella vita. Vedo il mondo così com’è e i miei unici strumenti sono la luce, la forma e il colore. Odio il post-processing, devo mostrarti quello che ho visto io, se vai nei luoghi che ho fotografato rivedrai le stesse immagini. Io voglio mostrare quello che è l’aspetto bello della vita. So che accadono disastri tutti i giorni, se apri i giornali o guardi il telegiornale, ti metti le mani nei capelli, ma c’è così tanto di bello a cui non prestiamo attenzione e che se non facciamo qualcosa rischiamo di perdere».
Ci racconti qualcosa della tua avventura al Polo Nord? E dove ti vedrà la prossima impresa?
«Non la rifarei per nulla al mondo! Alla mia guida mancavano dieci dita. A me è andata bene ma oltre all’impresa fisica io dovevo anche scattare fotografie. Prossima avventura, Islanda e dove altro? Sarei andato prima ma ero a documentare la triade della spiritualità indiana in occasione del Kumbha Mela (manifestazione religiosa che ha luogo ogni 12 anni nelle quattro città cardine del paese, ndr) dove ho avuto anche la fortuna di incontrare il Dalai Lama».
Quanto ti fermi mediamente in un posto?
«Da tre giorni a un mese e mezzo, come è accaduto per la mia spedizione in Alaska e Canada».
La tua vita privata non deve essere semplice allora.
«Infatti mia moglie mi ha piantato dopo 17 anni e due figlie! È il prezzo che ho dovuto pagare per aver scelto la vita di Fogar. Ma non ho rimpianti. L’amore ha per me grande valore ma mentre ero al Polo Nord e mettevo in pratica il training autogeno, i miei compagni mi hanno insegnato che è tutta questione di testa, è un’avventura psicologica non fisica, e questo insegnamento lo applico anche alla mia vita privata».